Mostra Macrocefala
Mostra Macrocefala, che più che un titolo rappresenta una dichiarazione d’intenti da parte dell’artista bergamasca Federica Mutti (Calcinate, 1992), è la personale allestita alla galleria Placentia Arte di Piacenza fino al 26 novembre 2016.
Una mostra cerebrale per l’appunto, metalinguistica, nella quale scrittura, immagine fotografica, disegno e scultura si alternano, sovrapponendosi l’uno all’altro fino a fondersi compiutamente nell’opera Capetto – una micro-scultura di una testa di reminiscenza classica appoggiata su una zolletta di zucchero –, a conclusione del percorso d’indagine a cui ci indirizza Federica, che si pone l’obiettivo di analizzare il ruolo del pensiero – la costruzione teorica – e del corpo – la formalizzazione dell’opera – nella produzione artistica.
Non a caso, per introdurci a questo viaggio di ricerca, ci invita a leggere Nove poesie macrocefale extra fondenti, un libro d’artista “incredibilmente facile a sciogliersi in bocca”, che da un verso all’altro istruisce il nostro sguardo all’uso delle giuste chiavi di lettura teoriche per approcciare e decodificare ciascun’opera presente in galleria. Le poesie, per la loro stessa natura, rappresentano la forma più elevata e strutturata del pensiero-testo umano e rappresentano quindi il “giusto mezzo” per introdurre lo spettatore ad opere macrocefale.
Se in opere come Mano d’artista con il relativo dito-pettine e Mano d’artista e innesti-fionda, la parola è affiancata all’immagine rendendola a sua volta corpo, oltre che concetto, in altre, come in Esperimento di riappacificazione forzata con la specie e in Immagine macrocefala, decapitata, “la teoria” alla base della nascita della forma dell’opera è taciuta, restando indecifrabile nella sua complessità senza i relativi versi al gusto di cioccolato.
La tecnica artistica e il processo di formalizzazione, per la giovane artista formatasi all’Accademia di belle arti Carrara di Bergamo, sono totalmente sottomessi e adattati alle necessità del singolo concetto che di volta in volta desidera trasmettere allo spettatore. Nelle opere I corpi degli artisti temperati ci salutano caramente e Il corpo poi avanza sempre – in cui testi apparentemente semplici, se non addirittura banali, si stagliano su un fondo nero – è il concetto nella sua forma segnica-visiva (letterale–scritta) l’espressione formale stessa scelta da Federica Mutti. In questi due casi non è la formalizzazione dell’opera a risultare macrocefala, ma la riflessione attorno al ruolo del corpo nelle pratiche artistiche dalla quale sono emerse queste due affermazioni, per nulla banali.
L’intuizione cerebrale quindi cede il passo all’atto creativo, che, accettando i giusti compromessi, traduce in forme iconiche ciò che prima era “trasfigurato” nella mente. La dicotomia mente-corpo però, nell’esperienza artistica contemporanea, non si esaurisce durante il processo di creazione. Il pensiero razionale, infatti, acquista forma attraverso l’utilizzo che l’artista fa della propria corporeità, ma solo attraverso il corpo del fruitore può essere ri-“vissuto e interpretato”. Ecco svelato che nel processo creativo artistico “il corpo poi avanza sempre”, come dichiara Federica Mutti a conclusione dell’ultimo testo della raccolta di poesie e nell’opera omonima appesa in galleria.
L’opera La madre di due figli è due madri, un’installazione formata da una pianta grassa, un opale etiope, una lampada led e un basamento in legno, incarna alla perfezione molti concetti riguardanti la creazione artistica a lei cari; come il ruolo genitoriale-autoriale dell’artista rispetto all’opera, l’ineluttabile individualità di quel rapporto e la disomogeneità nelle cure necessarie al mantenimento di ciascuna delle sue opere. La pianta grassa e l’opale, nonostante siano accomunate dall’alta percentuale d’acqua che le compone e giovino entrambe, anche se per motivi differenti, di un ambiente luminoso, richiedono fondamentalmente due habitat diversi per sopravvivere. Il calore emanato dalla lampadina, infatti, è perfetto per la crescita della pianta grassa ma mette a rischio la vita della pietra, che per la disidratazione potrebbe perdere l’opalescenza o addirittura frantumarsi. L’opera per restare integra richiede quindi cure continue e ben calibrate.
L’inginocchiatoio-pulpito ligneo, camuffato da rendering di acciaio, dal quale è possibile dominare tutte le opere alle pareti nella sala superiore della galleria, rappresenta formalmente e cerebralmente il palcoscenico della società contemporanea. Oggigiorno, infatti, la sfera privata e quella pubblica si confondono sempre più di frequente – si pensi anche solo ai diversi gradi di privatizzazione del “diario” di Facebook – assottigliando di conseguenza la distanza tra confessione intima ed arringa pubblica.
Il Terroir degli artisti
On BUBBLE'S Magazine, N°0
L’altra sera, sotto il cielo stellato di Pianello, un piccolo comune della Val Tidone in provincia di Piacenza, grazie ad una conversazione con la mia cara amica e artista piacentina Claudia Losi, ho incominciato a ragionare sul concetto di terroir declinato in riferimento al panorama artistico contemporaneo. Come ben sanno gli appassionati di vino, il termine terroir tradotto testualmente dal francese significa suolo e in ambito enologico viene utilizzato tradizionalmente per indicare l’influenza che il territorio – nella fattispecie la sua geologia e i suoi aspetti climatici, ma anche i fattori antropici e quelli storici di un luogo – esercitano sull’uva che vi cresce, determinandone le caratteristiche specifiche.
Il concetto – usato ormai anche per i prodotti agroalimentari e artigianali – è storicamente applicabile anche all’arte, che si è dimostrata nei secoli il linguaggio universale per comunicare la tipicità del luogo in cui viene prodotta, la sua storia e la tradizione culturale che lo contraddistingue.
Gli artisti e le espressioni artistiche, infatti, affondano le proprie radici nella tradizione e nella cultura del suolo a cui appartengono, traducendone di volta in volta gli umori anche biologici sotto una nuova chiave di lettura: celebrativa, ironica o critica.
Dall’arte antica a quella medioevale, da quella moderna a quella contemporanea, uno dei ruoli dell’artista è stato quello di calarsi nelle sue radici e interpretare, attraverso immagini e sculture prima, installazioni e fotografie oggi, avvenimenti, emozioni, idee – passati o presenti che siano – che in qualche modo l’hanno influenzato e determinato umanamente e artisticamente, proprio come il suolo, il clima e le pratiche agricole determinano le caratteristiche di un vino o di un prodotto alimentare.
Il fil rouge che collega l’intera storia dell’arte, infatti, è, come ha scritto Francesco Bonami, “l’urgenza di dire qualcosa con le cose del mondo”1.
Volutamente o no, nel suo testo, il critico italiano non fa una classificazione o distinzione in merito alle suddette “cose del mondo”, lasciando anzi il suo pensiero aperto a diverse interpretazioni. Possiamo quindi intenderle sia come “cose-materie”, fisicamente presenti o prodotte in un “mondo-territorio”, sia come “cose-patrimoni” storici o culturali, germogliati in un “mondo-contesto sociale”.
Il terroir dei primordi dell’arte, si “limita”, se così si può dire, a coincidere con gli aspetti geologici e climatici del territorio di produzione: dalla terra rossa, il guano di pipistrello, il sangue e il grasso animale tipici della pittura rupestre, all’uso della pelle e delle ossa fino all’uso dei metalli. Ovviamente, più si va avanti nella storia, e più si nota il crescente sopravvento dei fattori culturali su quelli puramente fisici, come bacino al quale gli artisti hanno scelto di attingere negli anni.
Con l’avvento del Medioevo la luce assume un ruolo centrale. Essa, infatti, acquista un significato totalmente simbolico, diventando espressione del divino, in opposizione alla materia buia, vista come simbolo del peccato. Questo passaggio storico-culturale fu decisivo per lo sviluppo delle tecniche costruttive e decorative delle vetrate, che man mano – raggiungendo l’apice nell’architettura gotica – diventarono la predominante espressione artistica presente nelle chiese e nelle cattedrali. Anche in questo caso, il terroir si dimostrò imprescindibile e determinante per il loro sviluppo. I migliori esemplari di vetrate, infatti, si trovano nell’Europa Settentrionale, dove la luce conferisce ai luoghi una valenza rarefatta e spirituale.
Con il Rinascimento inizia l’inesorabile preponderanza dei fattori antropici nell’ambito dell’arte. I quadri di Raffaello, Michelangelo e Leonardo non sarebbero quello che sono se Filippo Brunelleschi non avesse inventato la prospettiva e Leon Battista Alberti non l’avesse teorizzata nel suo Trattato della pittura. Tutta la realtà visibile diventò progettabile e misurabile.
Tralasciando, non di certo per disinteresse o dimenticanza, tutti gli altri innumerevoli esempi che potrei citare e analizzare all’interno dell’arte pre-novecentesca, cercherò di tracciare una mappa dei “vitigni autoctoni”, passatemi il termine, coltivati dagli artisti nell’ultimo secolo, soffermandomi, infine, specialmente sul terroir di due artisti contemporanei.
Le esperienze artistiche che si svilupparono nel primo e nel secondo decennio del Novecento, ad esempio, vennero per la prima volta universalmente riconosciute dagli storici e dai critici dell’arte come “espressione dello spirito del […] tempo”2.
Il Secessionismo viennese – Gustav Klimt, Egon Schiele e Oskar Kokoschka in testa – probabilmente non si sarebbe mai sviluppato se Sigmund Freud non si fosse interessato allo studio delle pulsioni umane represse e agli istinti sessuali in primis.
Lo stesso rapporto di causa-effetto esiste tra lo sviluppo della cultura di massa e le invenzioni tecnologiche, come ad esempio quella dell’automobile e quella della cronofotografia3, e il primo futurismo di Giacomo Balla e Umberto Boccioni, incentrato sulla rappresentazione del movimento e della città industriale in ascesa, della quale fu ottima testimone anche la scena artistica americana come dimostra l’opera New York reinterpretata: la voce della città realizzata da Joseph Stella nel 1920-1922.
Ugualmente, senza l’avvento del Fascismo in Italia, chi potrebbe affermare con certezza che la politicizzazione delle pratiche artistiche sarebbe comunque avvenuta e che Carlo Carrà avrebbe, in ogni caso, dipinto nel 1914 Manifestazione interventista?
Potrei citare innumerevoli esempi nella storia dell’arte che scaturirono dallo stesso principio di causa-effetto. Ad esempio, Il dominio dei prodotti consumistici, la mercificazione della cultura e lo sviluppo del medium televisivo negli anni ’50-’60, sono stati l’imprescindibile seme dal quale è germogliata tutta la cultura Pop americana, e non solo. Senza l’evoluzione progressiva della stampa fotografica, i paesaggi silenziosi, ovattati e avvolti dalla nebbia della Pianura Padana fotografati da Luigi Ghirri non avrebbero avuto lo stesso sapore trascendentale, e il passaggio dall’era industriale a quella postindustriale che travolse Milano negli anni ’70 non avrebbe trovato in Gabriele Basilico il suo perfetto documentatore analitico4.
Gli effetti “impossibili” di Salita e discesa (1960) e La cascata (1961), due delle litografie più famose di M.C. Escher, sono la trasposizione artistica del triangolo di Penrose, inventato dal matematico omonimo Roger Penrose.
Oggi, il terroir degli artisti contemporanei oscilla tra la terra e la storia di un territorio, rimaneggiati e interpretati di volta in volta attraverso stili differenti.
I cavalieri e i cavalli di Mimmo Paladino, beneventano, e quelli di Riccardo Dalisi, nato a Potenza ma napoletano di adozione, pur scaturendo entrambi dallo studio della tradizione sannita, differiscono enormemente nella forma e nel significato.
Attraverso continui riferimenti al mito, enfatizzati dall’uso di simboli greco-romani, etruschi e paleo-cristiani, – ma anche visionari – Paladino sviluppa immagini archetipiche, dal sapore arcaico, mediterraneo e onirico, riprendendo le tecniche antiche come l’encausto e il mosaico. Le sue statue – di legno, bronzo, rame e argilla in primis – sono icone, maschere antiche che, ritornando ciclicamente nelle sue opere, formano un alfabeto, enigmatico e misterioso, attraverso il quale l’artista riscrive la storia della sua città.
È il tema della memoria e del frammento, infatti, il perno del lavoro di Paladino, che, per plasmare i cavalli dell’installazione permanente Hortus Conclusus nel complesso universitario di San Domenico a Benevento e quelli annegati nella Montagna di sale in Piazza del Plebiscito a Napoli, ha rivolto l’attenzione alla composizione geometrica delle figure tipiche di Arturo Martini e, guardando ancor più indietro, ai Kouroi della statuaria greca del VII secolo a.C.
“[…] diventa inevitabile il confronto con gli antecedenti storici, e con la cultura che ciascuno si porta addosso, ma proprio nel precedente sta il motivo stesso del lavoro”5 dice Paladino.
Figurativamente molto distanti, i cavalieri a cavallo di Riccardo Dalisi rievocano i costumi dadaisti degli spettacoli teatrali messi in scena al Cabaret Voltaire di Zurigo nel primo e secondo decennio del Novecento, pur dimostrando anch’essi una ricerca espressiva che spazia nel mitico e nell’arcaico, tradotta attraverso un processo di analisi culturale e sociologica della città campana.
Create con l’utilizzo di materiali poveri e di riciclo, spesso raccolti dall’artista stesso nei vicoli di Napoli, come latta, carta, rame e ferro, le sue sculture contengono una “sfida”: il riciclo contro il consumo e lo spreco e come spinta verso una continua innovazione. Nel quotidiano rapporto con i lattonai e i ramaioli di Rua Catalana, famoso quartiere degli artigiani, nacquero anche i prototipi per la caffettiera commissionatagli da Alessi, che fu premiata nel 1981 con il Premio Compasso d’oro e che rese Dalisi internazionalmente celebre.
Da sempre impegnato nel sociale – grazie alla sua ricerca espressiva si è potuto entrare nella storia di un popolo, nell’anima di una città –, già negli anni ’70 l’architetto, artista e designer aveva realizzato opere di riqualificazione del Rione Traiano avvalendosi in questo caso, oltre che della cooperazione degli artigiani locali, della partecipazione degli anziani della Casa del Popolo di Ponticelli e dei bambini e dei giovani di quartieri in difficoltà.
In seguito, nel 1997, il suo progetto denominato Napolino – dal nome di uno dei lampioni che creò per adornare Rua Catalana –, fu selezionato dalla Comunità Europea per il suo particolare valore culturale e, nel 2007, Dalisi contribuì sostanzialmente alla realizzazione di un percorso didattico per sensibilizzare all’arte i bambini disagiati del quartiere, insegnando loro la lavorazione scultorea dei metalli poveri.
Protagonisti assoluti nell’opera dell’artista diventano quindi gli altri, l’incontro umano e sociale, che egli arricchisce introducendo e valorizzando il folklore, la fantasia e l’ironia, ma anche la spiritualità, della quale i quartieri napoletani sono impregnati. “Avevo circa 11 anni quando disegnavo per terra, sulla carta dei maccheroni con la penna e poi con i pennelli. I miei soggetti erano crocifissi e cavalli. Non erano simboli, ma il segno di un sentimento”6.
In entrambi gli artisti campani “le materie usate hanno un loro inconscio, una loro storia”7.
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La mostra personale di Riccardo Dalisi dal titolo Idee in volo (di Riccardo Dalisi) è allestista al Museo Storico di Lecce – MUST fino al 31 dicembre 2016, mentre a Milano si sono appena concluse tre mostre dedicate all’artista beneventano.
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1 Dal partenone al panettone. Incontri inaspettati nella storia dell’arte, Francesco Bonami, Mondadori Electa, Milano 2010, p. 5.
2 Termine tedesco Zeitgeist noto per l’utilizzo che ne fece Hegel nell’ambito della filosofia della storia (Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte), Berlino 1837.
3 Per cronofotografia si intende la registrazione in un’unica lastra fotografica, e quindi in un’unica immagine, di varie posizioni di un soggetto in movimento. Il cronofotografo fu inventato dal medico fisiologo francese Etienne-Jules Marey nel 1881.
4 Uscendo dai confini italiani: gli edifici su Sunset Strip fotografati da Ed Ruscha negli anni ’60 (USA) e le torri di raffreddamento negli anni ’90 di Bern e Hilla Becher (Germania).
5 Cortocircuito_Paladino, intervista di Flavio Arensi, curatore della mostra Paladino a Palazzo Reale, 7 aprile – 10 luglio 2011, Milano, catalogo GAmm Giunti.
6 I volti di Napoli, Stella Cervasio, intervista a Mimmo Paladino, Repubblica.it, Napoli, 23 maggio 2016.
7 Paladino. Fare in grande, Marco Vallore, intervista a Mimmo Paladino, “Rivista Arte”, luglio 2016, pag. 70.
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