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MICHELANGELO ANTONIONI. Una mostra a Palazzi dei Diamanti a Ferrara ripercorre la carriera di uno dei fautori della modernità cinematografica

Palazzo dei Diamanti a Ferrara, dal 10 marzo, è il palco su cui va in scena la prima mostra dedicata al cineasta italiano Michelangelo Antonioli (Ferrara, 29 settembre 1912 – Roma, 30 luglio 2007). ​Il regista, sceneggiatore, montatore, scrittore e pittore italiano,  insieme a Luchino Visconti e Roberto Rossellini, è considerato uno dei più grandi registi della Storia del Cinema in quanto fautore della modernità cinematografica.
L’esposizione è una formidabile opportunità per apprezzare e conoscere il genio di un regista, o come lo definisce Wim Wenders “pittore dello schermo”, ormai scomparso e che con i suoi film ha definito un nuovo tipo di cinema moderno. 

L'esposizione comprende: spezzoni dei film e sceneggiature originali, libri che lo ispirarono e quelli che scrisse lui stesso negli anni ’80 – Quel Bowling sul Tevere del 1983, ad esempio –, articoli di giornale, fotografie di scena – tra le quali spiccano quelle di Sergio Strizzi e Bruce Davidson –, l'epistolario intrattenuto con i maggiori protagonisti della vita culturale del secolo scorso – da Roland Barthes a Luchino Visconti, da Andrei Tarkovsky a Giorgio Morandi – e oggetti personali e professionali.

Queste testimonianze, oggi di proprietà del comune di Ferrara e custodite nel Museo Michelangelo Antonioni, sono accostate di volta in volta alle opere d'arte dei maestri che lo hanno ispirato, che conosceva e che ha collezionato nell’arco della sua carriera.

Il percorso espositivo, suddiviso in nove sezioni, accompagna il visitatore attraverso un racconto cronologico della carriera di Antonioni, sviluppando in maniera maggiore le tematiche più incisive della sua opera: le nebbie della pianura padana, simbolo degli anni della sua giovinezza che ritorna spesso nelle sue prime pellicole; la luce abbagliante dei deserti delle pellicole della maturità; la realtà che domina nei suoi esordi; la bellezza notturna dell’attrice Lucia Bosè e la solarità di Monica Vitti, delineano i due poli dell’immaginario femminile di Antonioni.

Lucido documentarista della realtà quotidiana di “soggetti populisti e pauperistici” nei cortometraggi girati durante i difficili anni della seconda guerra mondiale, come in Gente del Po (1943), ambientato nella sua terra natale, dagli anni ’50 riesce finalmente a dirigere i suoi primi lungometraggi nei quali, abbandonato il Neorealismo degli anni bellici, incomincia a rappresentare la società borghese del dopoguerra. L’attenzione del regista in Cronaca di un amore, del 1950, I vinti, del 1953, La signora senza camelie, dello stesso anno, e in Le amiche, del 1955, si focalizza, infatti, sui costumi e sulle ambientazioni in modo totalmente nuovo, proprio allo scopo di  sottolineare le caratteristiche sostanziali di questa nuova condizione sociale.

Con Il grido, del 1957, e con la Tetralogia dell’Incomunicabilità degli anni ‘60, composta da L’avventura, La notte, L’eclissi, e Il deserto rosso (il suo primo film a colori, oltre che Leone d'Oro al miglior film alla Mostra del Cinema di Venezia del 1964) con protagonista Monica Vitti – allora sua compagna anche nella vita privata – superare lo stile e  le tematiche dei precedenti lavori per concentrare l'attenzione sulla psicologia dell'individuo, sulle sue crisi esistenziali, sul suo vivere in una società che sente estranea.

Dopo la cosiddetta “tetralogia”, Antonioni intraprende un'avventura decennale all'estero, girando in lingua inglese e con attori protagonisti stranieri. Nelle pellicole di quegli anni – Blow Up (Palma d’oro al Festival di Cannes del 1966), Zabriskie Point (1970) e Professione: reporter (1975) – il regista esalta tutto ciò che si era intravisto nella Tetralogia, inaugurando la Metafisica dell’assenza. Il venir meno di punti di riferimento nella realtà crea nei personaggi un distacco estremo, fuorviante, che li porta ad un totale rifiuto della realtà in cui vivono.

Pur continuando a girare lungometraggi, negli anni ’70 torna a riutilizzare la forma del documentario, questa volta per testimoniare realtà molto distanti da lui, come ad esempio quella cinese in Chung Kuo, Cina (1972) sotto richiesta della RAI.

Fil rouge del percorso espositivo è la costante attenzione del regista per il valore estetico e formale dell'immagine: non a caso Wim Wenders lo definì “Un pittore dello schermo”.

La parola non era il suo elemento essenziale, anzi, si è sempre sforzato di liberarci da essa per passare alle immagini pure con il sogno, forse utopistico, che i sentimenti si tramutassero in immagini e le immagini in sentimenti.

L’amore del regista per l’arte antica e moderna è noto. Amava Piero della Francesca e Paolo Uccello, ad esempio, ma l’esposizione sottolinea soprattutto l’interesse ed il legame che sentiva per gli artisti a lui contemporanei come Morandi, De Chirico e Burri, ma anche Sironi, Balla e Pollock.

La mostra è affiancata da un interessante progetto didattico – Guardare il mondo con altri occhi –  che intende offrire alle scuole, alle famiglie e agli adulti un’occasione per scoprire e mettere a fuoco l’ecletticità dell’opera del cineasta ferrarese. Il progetto presenta un programma di iniziative di taglio interdisciplinare, per lo più incentrate sul coinvolgimento e la partecipazione attiva dei fruitori.

Da anni Sessanta Michelangelo dipinse alcuni acquarelli di paesaggi montani, esperimenti che preludono all’ampia serie delle “Montagne incantate”, che il regista svilupperà nella seconda metà degli anni Settanta e da cui trarrà ingrandimenti fotografici con un procedimento che inizia a sperimentare alla fine degli anni Settanta e che lo porterà a usare in modo nuovo il colore (con mezzi elettronici). E’ necessario considerare queste due serie, pittoriche e fotografiche inseparabili nell’esperienza creativa di Antonioni, anche se la serie pittorica può essere ritenuta indipendente poiché precede quella fotografica, ma nei suoi intenti fa parte di un progetto unico e continuativo. Negli anni Ottanta prosegue “Montagne incantate” esclusivamente avvalendosi dell’ingrandimento fotografico: con esso si rivelavano in maniera dettagliata una superficie materica che nel dipinto originale non era visibile. 

Presentata a Roma la 55° Biennale di Venezia, dal titolo: Il Palazzo Enciclopedico.

Il 13 marzo a Roma è stata presentata la 55° Esposizione Internazionale d’Arte. La Biennale Arte, che si svolgerà dal 1° giugno al 24 novembre 2013 negli spazi che tradizionalmente la ospitano – Giardini, Arsenale ed altri luoghi della città di Venezia –, è curata da Massimiliano Gioni e avrà come titolo Il Palazzo Enciclopedico.

Massimiliano Gioni ha spiegato la scelta del tema ricordando l’artista auto-didatta italo-americano Marino Auriti che, nel 1955, depositò presso l’ufficio brevetti statunitense il prospetto per la realizzazione di un museo immaginario – chiamato appunto Palazzo Enciclopedico – che avrebbe dovuto ospitare tutto il sapere, le scoperte e le creazioni dell’umanità. 

Artisti professionisti e dilettanti, outsider ed insider del settore, quindi, saranno affiancati allo scopo di creare una mappa – fatta di analogie e differenze –  che accompagni lo spettatore alla scoperta dei modi in cui le immagini siano state utilizzate per organizzare la conoscenza e per dare forma alla nostra esperienza del mondo, in passato come al giorno d’oggi.

Utilizzando le parole del presidente della Biennale di Venezia nominato per i prossimi quattro anni, Paolo Baratta, l’esposizione, concepita come un “museo temporaneo”, mira a dar vita ad una grande “mostra-ricerca” nella quale la rappresentazione contemporanea venga letta, o per meglio dire analizzata, in prospettiva storica, evidenziando cioè per ciascun artista esposto legami e relazioni sia con il passato che con il presente.

Per ottenere una mappa esauriente dell’immaginario contemporaneo, secondo il curatore, la 55° Esposizione Internazionale d’Arte, quindi, dovrà contenere non solo opere d’arte nel senso stretto del termine, ma anche manufatti storici e oggetti di altra provenienza storica-sociale – proprio come si era prefisso il Palazzo Enciclopedico di Auriti –, adottando un approccio antropologico allo studio delle funzioni delle immagini.
La mostra include più di centocinquanta artisti provenienti da trentasette nazioni e sarà affiancata da 88 Partecipazioni nazionali, tra cui 10 paesi presenti all’evento veneziano per eccellenza per la prima volta: Angola, Bahamas, Regno del Bahrain, Costa d’Avorio, Repubblica del Kosovo, Kuwait, Maldive, Paraguay, Tuvalu e Santa Sede. 

Il Padiglione Italia, organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la PaBAAC – Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee – quest’anno è curato da Bartolomeo Pietromarchi, l’attuale direttore del Macro.

Pietromarchi non ha ancora fornito né i nomi degli artisti selezionati né un numero preciso. E’ stato invece piuttosto chiaro sulla volontà di prendere le distanze dal suo predecessore – Vittorio Sgarbi – proponendo un progetto sobrio e contenuto nelle dimensioni, che vuole mettere in risalto le personalità artistiche italiane che, nonostante il lungo lavoro, non hanno ancora ottenuto un dovuto riconoscimento in ambito internazionale. Niente giovani artisti, dunque, ma solo maestri già arrivati ad una fase matura della propria ricerca.
La vernice avrà luogo nei giorni 29, 30 e 31 maggio 2013. La cerimonia di premiazione e di inaugurazione si svolgerà sabato 1° giugno.

L’immaginario fumettistico entra di diritto nelle gallerie artistiche milanesi

Sono anni ormai che nelle gallerie milanesi – e non solo ovviamente – vengono esposti fumettisti italiani famosi, writer di livello internazionale, tatuatori diventati veri artisti dell’inchiostro e altre figure indubbiamente creative, non riconducibili però a pieno titolo all’ambito artistico. Questo ovviamente palesa la tendenza del mercato artistico ad aprirsi ed avvicinarsi continuamente a nuovi stimoli e forme dell’inventiva umana.

​Contemporaneamente è molto in voga, ed al tempo stesso anche molto variegata, la propensione degli artisti – soprattutto da parte di quelli più giovani – di ricorrere alla maniera fumettistica ed al mondo dei cartoni animati per rappresentare il paradosso del postmodernismo.

Come si può leggere su Wikipedia “Postmodernismo è un termine usato nel ’900 [...] con il quale genericamente si fa riferimento alla crisi della modernità nelle società a capitalismo avanzato [quelle cioè] caratterizzate da un’economia e una finanza estese globalmente, dall’invadenza della pubblicità e della televisione [...], e da un, ormai incontrollabile e inverificabile, enorme flusso di notizie provenienti dal web”. Partendo da questa definizione, appare subito chiaro il motivo che spinge gli artisti a guardare a mondi e figure a metà strada tra il fantastico e l’orrorifico.

Ci sono artisti, come l’americano Dave Calver ad esempio, che decidono di utilizzare la matrice fumettistica per creare illustrazioni raffinate e minuziose di mondi e personaggi fiabeschi, allo scopo di mostrare i problemi della realtà quotidiana come visti attraverso lo sguardo di un bambino. In un mondo molto simile a quello dei cartoni animati, le piante e gli oggetti prendono vita, mentre le poche figure “umane” presenti sembrano in procinto di essere inglobate da essi.

Altri artisti, come Carlo Alberto Rastelli, si avvicinano alla morfologia fumettistica da tutt’altra angolazione raggiungendo risultati totalmente differenti. Le sue tele, infatti, nelle quali ricorre l’utilizzo di una pittura ad olio iperealistica e una costruzione dell’immagine basata sul contrasto tra figura e sfondo, richiamano alla mente subito, ad un primo sguardo, le comic strip dei fumetti. Ogni tela dell’artista parmense è dominata da un singolo personaggio – raramente vi appaiono più figure – sia che si tratti di un ritratto o di una visione più ampia della figura. Questi volti sono accomunati da espressioni beffarde, dal colore putrescente della carne, da sorrisi laconici, da orbite vuote e dal vuoto che li circonda e risucchia, che Carlo rappresenta attraverso una stesura del colore molto compatta ma frammentata da texture e altri elementi ridondanti. Una tecnica non comune attraverso cui il soggetto umano si manifesta e al tempo stesso si annichilisce.

Ovviamente questi sono solo due dei tanti modi in cui gli artisti contemporanei si lasciano ispirare dal mondo fumettistico e da quello dei cartoons.
Fino al 30 aprile 2013 sarà possibile ammirare le opere di questi due artisti alla bipersonale, a cura di Pietro Di Lecce, in corso allo Spazio Orlandi di Milano, dal titolo ME AGAINST THE WORLD.

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