Mi piace lasciare la strada vecchia per la nuova.
Nino Migliori
Una mostra alla Fondazione Forma di Milano – visibile fino al 6 gennaio 2013 – permette di tuffarsi nel mare di fotografie scattate dagli anni Quaranta da Nino Migliori, il fotografo bolognese considerato oggi un vero e proprio architetto della visione.
Il percorso espositivo di Nino Migliori. La materia dei sogni, a cura di Denis Curti e Alessandra Mauro, si sviluppa in una sequenza ragionata e cronologica di opere che dal racconto della realtà degli anni Quaranta-Cinquanta passa alle sperimentazioni sul mezzo e alle manipolazioni off camera, fino a mostrare i suoi scatti di Muri, la grande produzione intorno alle Polaroid e le installazioni.
Da più di sessanta anni, infatti, Nino Migliori ci sorprende per la diversità dei progetti realizzati, ma ancor più per la coerenza stilistica che ha sempre mantenuto. Esplorando gli elementi fondanti della fotografia cerca di investigare e destrutturare il linguaggio fotografico per creare immagini che vadano al di là della semplice realtà visiva e che spingano i contemporanei a porsi degli interrogativi quanto i posteri a non dimenticare la propria storia individuale e collettiva.
Come ha affermato più volte Migliori stesso, la fotografia per lui è la materia prima per creare i propri sogni visivi. Ecco perchè la sua produzione fotografica si evolve in uno dei percorsi più multiformi ed interessanti della cultura d’immagine europea, come ci dimostra perfettamente questa retrospettiva, la prima così grande dedicata al bolognese, grazie ad immagini celebri ed a grandi inediti.
Alla fine degli anni Quaranta Migliori s’inscrive a pieno titolo nella storia della fotografia realista consegnandoci frammenti dell’Italia sofferente ma poetica del dopo guerra, nei quali predomina un’indagine sulla quotidianità della gente comune. Sono gli anni in cui scatta alcune tra le più celebri e significative immagini della storia della fotografia italiana, come Il tuffatore (1951).
Negli stessi anni comincia le sue sperimentazioni sulla scrittura per mezzo della luce: disegna sulla pellicola con i liquidi di fissaggio e di sviluppo (Ossidazioni), brucia i negativi con dei fiammiferi per poi stamparli (Pirogrammi) e interviene sulle lastre con graffi ed incisioni (Clichè-verre e Cancellazioni) o con liquidi colorati (Idrogrammi).
Degli anni ’60 sono le serie di fotografie scattate ai Muri e l’esplorazione della natura fotografica della Polaroid dalla quale nacquero serie come Italian Sketchbook, polaroid su cui Migliori interviene con l’aggiunta di pittura.
CORPI ESTRANEI.
Con un progetto concepito appositamente per lo spazio espositivo distaccato del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato a Milano, Paolo Grassino ci trasporta in un ambiente dall’atmosfera sospesa tra il naturale e l’artificiale invitandoci a ripercorrere, a ritroso nel tempo, il percorso tracciato dalla sua riflessione sulla precarietà e sulle derive della società contemporanea.
Da più di venti anni, i lavori dell’artista torinese – sculture, installazioni, video e dipinti – si pongono come obiettivo quello di esprimere la condizione esistenziale umana e di interpretare i fantasmi della storia attraverso opere ad un alto grado di spettacolarità, recuperando contemporaneamente l’impiego della manualità e l’utilizzo di materiali e tecniche più o meno avanzate.
L’interesse di Paolo Grassino si concentra, non come può sembrare ad uno sguardo superficiale sulla dimensione umana, fisica o psicologica in senso stretto, bensì sul dialogo tra la figura umana o animale con l’oggetto artificiale. Attraverso delle narrazioni a trama libera, infatti, l’artista evidenzia i mutamenti a cui è soggetto il corpo naturale nell’attimo esatto del suo incontro con dei “corpi” estranei e come, tramite queste unioni, codeste entità diventino un “corpo” unico e inseparabile.
Nella grande sala espositiva del Pecci di Milano ad accogliere il visitatore ci sono un’installazione ambientale del 2012 ed una imponente video proiezione a muro del 2010, mentre in fondo alla sala, alla fine di un lungo box nero – versione aggiornata della caverna in quanto spazio intimo di auto-riflessione – il Percorso in tre atti viene concluso da quattro dittici dipinti su carta del 2008.
Analgesia – installazione esposta sulla spiaggia di Bredene/Ostenda in Belgio in occasione della mostra Beaufort 04 e riproposta nello spazio bianco post-industriale milanese – ci proietta in un futuro spazio-temporale immaginario abitato da cani lupo, ormai più simili a cyborg che ad animali, rimasti a guardia di carcasse d’automobili Fiat Uno, un chiaro auto-riferimento dell’artista torinese. L’installazione narra il necessario ritorno ad un istinto primordiale, insieme ad un senso di appartenenza ad un luogo e a un gruppo, per fronteggiare una terra selvaggia, desertica e sperduta, quale quella prodotta dall’evoluzione in corso, nella quale all’uomo spetta il ruolo di mero spettatore.
Nel trittico video Controllo del corpo nove figure fuori dal tempo e dallo spazio girano su se stesse assecondando i movimenti dei cavi posti sulle loro teste. Questi corpi dalle sembianze anonime (nove artisti torinesi ridotti ad una rappresentazione iconica di se stessi) appaiono assoggettati ad un moto apparente simile a quello che lega i pianeti al Sole e richiamano alla mente una dimensione ciclica e cosmica.
Le mani, in quanto strumento primario della comunicazione umana, del lavoro e dell’identità individuale (per le impronte), sono il soggetto scelto da Paolo Grassino per l’opera Resa. Pittografate a scala sovrumana, quattro coppie di mani nascono dalla sovrapposizione di nervature e pelle, richiamando subito alla mente del visitatore delle radiografie. Lo spettatore, per avvicinarsi a scoprirne ogni minimo particolare e differenza, è obbligato ad inoltrarsi nel box vivendo un’esperienza simile a quella della scoperta dei disegni primitivi nelle caverne.
Il progetto speciale, a cura di Stefano Pezzato ed organizzato dal Museo Pecci Milano in collaborazione con SpazioBorgogno, sarà visibile fino al 16 Febbraio 2013.
L’Arte Contemporanea fa acqua.
Quando un artista firma borsette di marche famose o esce un film sulla sua vita la notizia non tarda a fare scalpore e tutti si formano un’opinione al riguardo, ma quando l’arte si fa veicolo di una battaglia sociale spesso nessuno ne parla.
Il progetto Kalahari Catalyst punta a migliorare la qualità della vita ad Utikom e Andriesvale, due villaggi del deserto del Kalahari in Sud Africa, attraverso la combinazione di arte, permacultura ed educazione. Questa volontà di avvalersi di mezzi culturali per ottenere una trasformazione sociale – nata da un gruppo d’artisti e attivisti internazionali e del Sud Africa, con competenze che variano dall’educazione ai lavori sociali, dall’arte visiva all’agronomia, dall’ingegneria ambientale all’etno-botanica – consentirà alle due comunità di avere maggiore accesso all’acqua potabile e di coltivare frutta e verdura a livello locale. Circa, infatti, il 40-60% delle pompe d’acqua in Africa stanno cadendo in rovina.
Il progetto Kalahari Catalyst vuole rimpiazzare le pompe di gasolio con pompe ad energia solare e lavorare con i membri della comunità per piantare due giardini progettati secondo i dettami della permacultura, uno in ogni villaggio.
All’interno del progetto, le attività artistiche, organizzate per individui di tutte le età e con diverse abilità, hanno come obiettivo quello di creare uno spazio per l’apprendimento e per la costruzione di un senso di condivisione della proprietà delle pompe e dei giardini. Inoltre, saranno organizzati workshop e attività varie allo scopo di analizzare il valore simbolico dell’acqua, del cibo e del lavoro cooperativo, e di produrre manufatti artistici che combinino valori estetici e funzionali. Questi prodotti artigianali, insieme ad opere donate da artisti italiani non in loco, saranno vendute in seguito ad un’asta di beneficenza che contribuirà a finanziare le fasi successive del progetto.
Il team di Kalahari Catalyst è composto da sette artisti visivi: Valentina Argirò (IT), Raphael Franco (BR), Indigo (CAN), Juma Mkwela e Willard Kambeva (ZIM/SA), Raw Tella (IT) e Andrzej Urbanski (POL/GER), un artista/guerrilla gardener: WayWordSun e di 2 ricercatrici in dinamiche sociali e scientifiche: Linzi Lewis (SA) e Valentina Mandirola (IT).
Il progetto partirà ufficialmente all’inizio del 2013, anche se è già possibile sostenerlo tramite una libera donazione sul sito http://www.indiegogo.com/kalaharicatalyst. Per seguirne, inoltre, ogni fase di sviluppo anche dall’Italia è sufficiente visitare il sito http://kalaharicatalyst.com/.
Giuseppe Penone alla Whitechapel Gallery di Londra.
Come ogni anno, la Bloomberg Commission ha invitato un artista internazionale a creare un’opera site-specific da allestire nella galleria 2, un tempo sala di lettura dell’ex Whitechapel Library, ispirata alla ricca storia dell’istituzione inglese. Il privilegio quest’anno è toccato ad un artista italiano: Giuseppe Penone.
Spazio di luce è un’ambiziosa, quanto monumentale, scultura di bronzo che invita lo spettatore a ripensare al rapporto tra vista e tatto, fuori e dentro, natura e città. Da più di 45 anni, infatti, l’artista italiano insiste sull’inseparabile interconnessione esistente tra la sfera culturale e quella naturale e quindi di conseguenza tra società industrializzata e natura.
Ad un primo sguardo la scultura può sembrare un semplice calco in bronzo di un albero lungo 12 metri – ottenuto tramite l’antica tecnica della fusione a cera persa – rivestito al suo interno con foglia d’oro e saldamente ancorato al pavimento grazie al gioco intricato dei rami. L’albero però è tagliato e diviso in sezioni per consentire ai visitatori di spostarsi tra le sue singole parti e ammirarne l’evolversi delle forme interne. Sia per la natura del soggetto che per l’irradiazione di luce prodotta dall’oro stimolato dalle luci della sala, la scultura contrasta con l’architettura a colonnato e con la scarsa illuminazione del resto della galleria, mettendo in evidenza la possibilità di una natura nascosta all’interno dell’ambiente urbano in cui è situata la galleria londinese.
Come a voler riflettere l’interesse di Penone sul modo in cui l’uomo si relaziona al mondo naturale attraverso il tatto, il bronzo esterno dell’opera volutamente mostra le migliaia di impronte digitali lasciate dai tecnici della Fonderia che si sono occupati del processo di fusione. La scelta dell’utilizzo dell’oro, invece, è chiaramente spiegata dalle parole dell’artista, pubblicate da The Art Newspaper: “Gli alberi sono esseri viventi che crescono e si sviluppano secondo, e in cerca di, luce”. Quale strumento migliore dell’oro avrebbe quindi potuto usare per esprimere la linfa vitale interna all’albero?
In un angolo della sala – forse in una posizione che non risalta a sufficienza – è allestita la scultura Essere Fiume (2000). L’opera, composta da una pietra levigata dal movimento dell’acqua di un fiume in Toscana e da una scultura della pietra stessa, forgiata dalle mani di Penone per creare un simulacro dell’originale, vuole mostrare l’analogia esistente tra le forze della natura e l’azione dello scultore.
In una piccola sala attigua è possibile ammirare disegni, fotografie e aforismi che aiutano a capire il processo mentale e artistico alla base dell’installazione e che mostrano come questo lavoro rientri a pieno titolo nel percorso artistico di Penone degli ultimi cinquanta anni. L’albero, infatti, è un elemento centrale di tutta la sua carriera artistica. Molte delle sue prime “azioni” – performance che sopravvivono nel tempo solo sotto forma di fotografie – , attraverso le quali l’artista voleva investigare la stretta relazione tra il corpo umano e l’ecosistema in cui viviamo, prendevano vita nelle foreste vicino a Torino o a Garessio, la sua città natale. L’albero cresce e porta su di sè i segni del passare del tempo esattamente come l’uomo, diventandone in un certo senso una metafora nelle opere di Penone.
Per tutto l’anno, oltre all’installazione, sarà possibile partecipare ad un fitto programma di conferenze ed eventi incentrati sull’esplorazione del ricco rapporto tra natura e città.
L’anno prossimo questa monumentale opera scultorea atterrerà a Parigi, nei ben più vasti spazi della Reggia di Versailles. Sarà sicuramente interessante vedere che allestimento sceglieranno i curatori francesi e confrontarne l’impatto visivo con quello minimal londinese. Fino a settembre la Whitechapel sarà il custode di questo dardo scintillante.
Dalla Russia con Amore.
Secondo le pagine di The Art Newspaper International Survey Of Museum Attendance nel 2009, 2010 e 2011 la Saatchi Gallery ha organizzato 7 delle 10 esposizioni artistiche più visitate a Londra. Il nome di Charles Saatchi, che fin dagli anni Settanta è associato al mondo pubblicitario in quanto fondatore di un’agenzia leader nel settore, è oramai universalmente riconosciuto anche come garante e fautore di un’altissima qualità artistica.
​Inaugurata al pubblico più di 25 anni fa – esponendo nel solo anno d’apertura maestri indiscussi come Donald Judd, Brice Marden, Cy Twombly ed Andy Warhol –, la galleria in King’s Road vanta negli anni esposizioni dedicate ai nomi più celebri ed incisivi del panorama artistico internazionale contemporaneo.
Sono molte le personali, i concorsi per giovani talenti e le installazioni site-specific – come ad esempio l’opera scultorea permanente di Richard Wilson 20:50 e l’installazione audio-video di Christopher Backer Hello World! – finanziate dal gallerista londinese, ma ancor di più le collettive e le rassegne tematiche.
Dal 21 novembre 2012 le pareti bianche dei tre piani elevati accolgono due affascinanti, quanto esaurienti, mostre che conducono lo spettatore alla scoperta dell’arte russa.
Breaking The Ice: Moscow Art 1960-80s, visitabile fino al 28 marzo 2013 all’ultimo piano della galleria, raccoglie una selezione dei principali artisti russi che vissero e lavorarono a Mosca dal 1960 alla fine degli anni Ottanta, focalizzando l’attenzione sulle figure chiave, i noccioli tematici e le prevalenti forme stilistiche di quel periodo. Organizzata in collaborazione con la Tsukanov Family Foundation – organizzazione benefica con sede a Londra che supporta lo sviluppo dell’educazione, dell’arte e della cultura in Russia e in Gran Bretagna – l’esibizione raccoglie quasi 200 opere, provenienti da collezioni private e musei russi, europei e americani. Le opere sono allestite all’interno di un percorso cronologico diviso in sezioni costruite in base alla condivisione, da parte di artisti non necessariamente collegati tra loro, della stessa visione artistica.
Le prime sale riflettono gli sforzi da parte di un folto numero di artisti di ri-esplorare le tradizioni moderniste dopo la morte di Stalin. La Russia rivoluzionaria era stata, infatti, una fucina per l’arte d’avanguardia – in particolare per l’elaborazione dell’astrazione suprematista e costruttivista con Kasimir Malevich ed Alexander Rodchenko – fino a quando la repressione stalinista non aveva obbligato gli artisti a ritornare ad una figurazione realista quanto plumbea, il cosiddetto Realismo Socialista, eleggendola ad unico stile ammesso dallo Stato.
Tra i tanti nomi presenti – Yury Zlotnikov, Francisco Infante e Vladimir Veisberg solo per citarne alcuni – Oleg Tselkov si distingue per la sua particolarissima ricerca nell’ambito del ritratto, che fin dalla fine degli anni ’50 permea il suo stile. L’artista dipinge ritratti di persone comuni, scevre da caratteristiche fisiche particolari, per rivelare il lato oscuro dell’inconsapevolezza umana e portare avanti una critica dell’ingenuità, cecità e aggressività delle masse. Non vi è però satira nelle sue tele, al contrario, esse sono offerte allo spettatore come rimedio medicinale: liberando i mostri della sua anima e dandogli una forma fisica li allontana da sé fino a raggiungere la redenzione e così facendo dona la stessa cura allo spettatore.
La seconda metà dell’esposizione oltre ad essere più corposa è fondamentalmente dominata da due raggruppamenti: la Sots Art, un mix di realismo pop irriverente e socialista, teorizzata dagli artisti Vitaly Komar e Alexander Melamid all’inizio degli anni Settanta, e l’opposta Arte Concettuale russa. Se la Pop Art americana nacque come reazione alla sovrapproduzione di merci destinate ai consumatori, la Sots Art fu un’ironica opposizione alla sovrapproduzione ideologica e propagandistica russa. Oltre ad un’ampia selezione d’opere di Komar e Melamid sono molto interessanti anche i lavori di Leonid Sokov, Alexander Kosolapov e Grisha Bruskin, uno dei più famosi artisti degli anni della Perestroika. Quest’ultimo trasforma la storia sovietica recente nell’archeologia di una civiltà perduta e i miti Sovietici in monumentali quanto vulnerabili figure in decomposizione.
Le opere che compongono Breaking the Ice sono sapientemente bilanciate tra giocoso, satirico e torbido, rendendo la mostra un' esperienza educativa unica.
Al primo ed al secondo piano, invece, è allestita Gaiety is the most outstanding feature of the Soviet Union: New Art from Russia, visitabile fino al 9 giugno 2013.
Dipinti, installazioni, sculture e fotografie, quasi tutte prodotte nell’ultimo decennio e mostrate per la prima volta in territorio britannico, documentano l'oppressione sociale, la povertà devastante, la durezza e l'impotenza della vita quotidiana post-Sovietica. C’è chi come Boris Mikhailov si focalizza sui senzatetto, chi come Sergei Vasiliev sui prigionieri sovietici, documentando la lingua segreta dei criminali in Urss tramandata attraverso la pratica dei tatuaggi, o chi come Vikenti Nilin guarda ad ipotetici vicini di casa in bilico tra la vita e la morte. Una rassegna realista e cruda che ci invita tutti a riflettere.