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La forza dell’inconscio nelle tele rosse di Daniela Ardiri

In una società dello spettacolo in cui l’essere umano tende progressivamente a perdere la propria individualità creativa, affidandosi totalmente ai media – come profetizzò Guy DeBord già nel 1967 – è la mercificazione a dominare ogni aspetto dell’attività artistica e curatoriale, facendola diventare pura apparenza. Per nostra fortuna ci sono ancora artisti controcorrente, una di queste è Daniela Ardiri, con le sue tele rosse.
La scelta dell’artista di fuggire dalla realtà mediatica – esterna –  per riscoprire un legame con la propria dimensione interiore appare molto coraggiosa, realizzata com’è, all’interno di un contesto artistico managerializzato. In esso l’arte viene vissuta come statusfera, l’opera diviene un bene di lusso ridotto a status symbol, cioè una merce, soggetta a speculazioni, il cui valore viene definito in termini economici e non più estetici.
Nemmeno molti artisti già brandizzati si arrischiano a sfidare il sistema dell’arte all’interno del quale operano, perché sono consapevoli che l’intraprendere una strada controcorrente li porterebbe ad allontanare l’interesse di gallerie, riviste e collezionisti.
Questo appunto è successo alla giovane pittrice che, nonostante gli ostacoli, porta avanti la sua ricerca con ostinata fedeltà alla propria sensibilità .
Il lavoro sviluppato, abbandonato e poi ripreso negli anni dalla Ardiri, trasmette allo spettatore un evidente senso di ossessione, che la accompagna fin dalla formazione ricevuta in Accademia a Brera. Questa dimensione psicologica prende forma attraverso le scelte tecniche, cromatiche e contenutistiche dell’artista.
La figura umana nuda e la forma del bocciolo del fiore, infatti, riecheggiano in modo ossessivo durante la sua crescita artistica – fino al punto di spingerla ad abbandonare per un breve periodo la pittura alla ricerca di un chiarimento psicanalitico. A questa scelta si accompagna la necessità, indefinibile agli occhi di Daniela stessa per molto tempo, dell’utilizzo del solo colore rosso, steso tono su tono, in modo immateriale.
Sia il colore rosso, con la sua forza simbolica e la sua capacità di suscitare profonde reazioni fisiologiche, che i soggetti, spiraliformi e rievocanti la dimensione sessuale, concorrono a svelare/evidenziare il rapporto difficile e oscillante con la propria sessualità.
Fondamentale nel lavoro dell’artista è il passaggio dal “soggetto-corpo” al “soggetto-fiore”. Nelle prime tele predomina lo studio della figura umana intera; dopo, anche se ciò che è nuovamente rappresentato è un fiore, esso, in realtà, è una metonimia del “soggetto-corpo” iniziale. Il fiore, quindi, è la parte per il tutto, che Daniela vive in modo ambiguo.
Il Fiore – con la sua forma ovale che evoca quella di un calice, di una coppa e di un ricettacolo – fin dall’antichità è stato associato alla polarità femminile e ricettiva e, nell’iconografia artistica in particolare, i fiori sono il segno della rigenerazione e della rinascita.
Altri elementi che ritornano costantemente nella produzione artistica della Ardiri sono la scelta di non dare nessun titolo ai lavori, per permettere allo spettatore di interpretarli liberamente, e l’impiego di tele di formato centralizzante: il bisogno di una centralità di formato che, in un certo modo, limiti e al tempo stesso definisca la forma spiraliforme.
Davanti a questo tipo di rappresentazione reiterata lo spettatore non può che porsi in posizione interlocutoria e chiedersi quale sia l’intento dell’arte dell’Ardiri e cosa l’abbia spinta verso la pittura. Cosa ancor più importante,  perché sente il bisogno di riprodurre sempre le stesse forme, lo stesso tocco attraverso l’utilizzo del rosso? È il tentativo di rielaborare o esorcizzare un’esperienza personale?
Nonostante sia impossibile rispondere con certezza a queste domande, in quanto neanche l’artista ci è del tutto riuscita, il lavoro di Daniela Ardiri contribuisce sicuramente a una risensibilizzazione dell’arte contemporanea. In questo momento storico, in cui l’uomo accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti, allontanandosi dalla comprensione della propria esistenza, è confortante la presenza di artisti come la Ardiri che, prendendo per vero l’assunto che l’arte si definisca per la sua capacità di stimolare una riflessione, ci forniscono una risposta al problema posto da David Fincher:  “I vecchi corpi umani stanno diventando infungibili in un mondo del lavoro fatto ormai solo di bit e macchine. Se non sei ancora pronto rivolgiti ai centri specializzati di implementazione cyborg su corpo umano” . Il vecchio corpo umano può ancora ispirare all’arte un’indagine sulle radici più intime e profonde della vita sul nostro pianeta.

Spazio e Tempo nella fotografia di Marco Signorini

“Un artista durante la sua crescita artistica semplifica ed essenzializza il suo stile.” Marco Signorini.

Marco Signorini nasce e vive a Firenze. Dopo gli studi accademici in scenografia decide di dedicarsi da autodidatta alla fotografia di ricerca, rivolgendo particolare attenzione alla fotografia di paesaggio.
Attraverso progetti personali, come ad esempio la pubblicazione del libro fotografico Echo, committenze museali e il corso di reportage che da quest’anno tiene all’Accademia di Brera, il fotografo toscano porta avanti in modo autonomo una ricerca sperimentale sul linguaggio fotografico.
A partire dalle ricerche sviluppate dai grandi fotografi degli anni ‘70, attraverso un percorso di semplificazione delle loro poetiche, Signorini crea immagini che parlano della fotografia stessa, non come pratica finalizzata a creare un opera estetica, attraverso uno strumento meccanico/manuale, ma come mezzo di riflessione sull’uomo e la realtà.

”L’arte comincia a vivere quando il fruitore ne fornisce un’ interpretazione, ed essa vive in ciascuna interpretazione.” [Il fotografo deve] “registrare un momento o un gesto per evocarne le potenzialità interpretative.” Marco Signorini.
In linea con le parole di Paul Sartre –  “Anche la percezione della visione è soggettiva” – e con la ricerca sviluppata in America da Lee Friedlander sulla fotografia come sguardo sul mondo, il fotografo ritiene che le immagini fotografiche, pur dipendendo da un referente reale e oggettivo, rimangano interpretative, in quanto permettono alla realtà fotografata di essere ricomposta e di acquistare, di conseguenza, diversi significati a seconda dell’occhio da cui viene "veduta" – diverso da "vista" –  creando altre realtà, questa volta di terzo grado e non più di primo.
La distanza, che Signorini vuole porre tra la macchina e il soggetto fotografato, in apparenza fisica, vista la vastità sempre maggiore delle sue vedute e la mancanza di particolari nitidi, è in realtà mentale. Le fotografie fatte da lontano lasciano, infatti, più spazio all’immaginazione/ interpretazione.
Anche nei ritratti, sulle orme degli studi di Walker Evans e su quelli di August Sander – per quanto riguarda la dimensione sociale o documentaria della fotografia – , Signorini lascia libera la via dell’interpretazione creando immagini ambigue, con più visioni del soggetto fotografato ed evitando di riprodurre i particolari. La fotografia diventa così insieme di segni minuscoli.
Da questo punto di vista, la sua ricerca, potrebbe essere fatta rientrare all’interno della più ampia esperienza fotografica, definita all’unanimità dalla critica Street Photography, sviluppata in contrasto alla “contromaniera” dominante negli anni ‘70-‘80 del “non luogo”. La Street Photography costituisce un’esperienza internazionale di riscoperta del paesaggio naturale, sia “romantico” che di periferia –  attraverso scatti rubati – come luogo con un vissuto e attraverso cui l’uomo si misura. In questo contesto si inserisce il lavoro di Marco Signorini sulla metropoli, del 1999-2000, con scatti delle periferie fiorentine.
Si tratta quindi di una fotografia di paesaggio che non si occupa di riprodurre luoghi geografici ma “contenitori per l’uomo”. Signorini, infatti, affronta il tema della relazione personale ed emotiva tra uomo e spazio attraverso immagini suggestive e misteriose, dai toni fiabeschi e romantici, che richiamano “l’effetto pittorico” delle tele di Friedrick Turner . Anche se di “fotografia pittorica” non si può proprio parlare, in quanto non vi è nessuna costruzione dell’immagine a priori o in post-produzione, come Signorini stesso ama sottolineare.
Le sue immagini, scandite dalla luce, che si fa verbo, e dalla vastità dei luoghi fotografati, diventano una riflessione sul nostro “essere dentro la natura” ma anche sul dialogo, continuo, tra paesaggio naturale e contemporaneità (come nelle immagini di paesaggio naturale interrotto da segni di pneumatici e dalle luci delle auto), lasciando spazio ad una vena maggiormente nostalgica.
Con ((Ra)) – lavoro presentato l’anno scorso al GAP a Gallarate –  Signorini prosegue un percorso, iniziato con il precedente progetto Echo (2007), di indagine spaziale e temporale, attraverso immagini di luoghi dove la natura è protagonista e detta i tempi e i ritmi. Il titolo stesso della mostra aiuta a capirne il senso tematico. Infatti, il logo “((Ra))” nella sua interezza può essere sia letto come un esplicito rimando al Dio egizio del sole, e quindi alla fonte di energia primaria nel mondo, sia come riferimento alla parola “radioattivo”, richiamando quindi un senso di minaccia da parte della contemporaneità e, al tempo stesso, dell’importanza primaria della luce nel suo lavoro.
”L’alternanza dei valori di luce e ombra è alla base del sistema fotografico.” “In qualità di puro indice l’ombra […] costituisce un marchio del tempo.”  Jean-Christophe Bailly
In questa mostra, come nelle altre, il fotografo non si limita ad occuparsi di paesaggio, ma si dedica alla creazione, attraverso le immagini scattate, di momenti narrativi attraverso cui interpretare il tempo fotografico.
La fotografia, infatti, viene vissuta da Signorini come un mezzo per dilatare il tempo – come una specie di loop – e per amplificare minimi movimenti, costruendo il senso dell'immagine con una lettura capace di rivelare sia aspetti inediti della realtà che qualcosa dello spettatore e del suo mondo interiore.
Ecco perché le sue immagini sono sobrie, quasi minimaliste: rappresentano al tempo stesso la sintesi e l’essenza delle vicende umane.
Come ha detto Jean-Christophe Bailly: “il reale è depositato nel tempo fotografico, tutto ciò che appare sembra poter essere in qualche modo salvato”..“La melanconia inerente alla ripresa fotografica […] risulta […] da una piegatura del tempo, da una durata singolare in cui il passato del referente, il presente della presentazione dell’immagine e il suo futuro sempre latente si confondono in un unico "foglio di presenza", […].”

Intervista a Silvia Romagnoli.
Proprietaria e direttrice della Galleria Alquindici di Piacenza

Silvia Romagnoli ha studiato negli Stati Uniti, dove ha preso due lauree: una in psicologia, per interesse personale, tanto è vero che non ha mai esercitato, e una  in arte, ma la sua vera passione a quei tempi era la fotografia, passione che coltivava frequentando un corso dopo l’altro. Così, alla fine del suo percorso di studi, si trovò ad avere la possibilità di lavorare per National Geographic, ma, a quel punto,  invece, decise di ritornare in Italia per fare il presidente di un circolo di golf per sedici anni, cosa che con l’arte non ha proprio niente a che fare. Nonostante questo cambiamento di rotta ha sempre tenuto viva la sua passione per l’arte in sé, cominciando anche a girare mostre e comprare quadri. Alla fine del 2008 ha inaugurato la galleria d’arte contemporanea Al quindici a Piacenza.

- So che negli Stati Uniti la sua tesi di laurea riguardava Giotto e le icone russe. A questo punto una domanda è d’obbligo: perché la scelta di una galleria di arte contemporanea?
Ho sempre avuto la passione dell’arte in sé. Assolutamente non quella contemporanea. Ma ogni volta che non capisco una cosa devo cercare di arrivare a capirla, per cui ho incominciato a studiare, ho comprato libri, mi sono abbonata a tutte le riviste, ho cominciato ad andare sui siti a vedere le aste. Ma la cosa che mi ha davvero attirato in questo mondo sono le televendite alla televisione, la Orler, che secondo me è fantastica perchè ha dei venditori innamorati del loro mestiere, bravissimi a farti capire l’arte contemporanea, fino a che non ne puoi più fare a meno. Allora ho incominciato a vedere le opere, non ha guardarle. Soprattutto nell’arte contemporanea secondo me è una questione di allenarsi a vederla e capirla. Allora, invece di continuare a chiedermi cosa fosse, ho incominciato a chiedermi “ma a me piace?” e questa è stata una tragedia, perchè ho incominciato ad andare in giro e poi a comprarla ed è diventata una cosa senza la quale non posso vivere. Resto comunque convinta che tra gli artisti contemporanei ci sia una gran massa di imbroglioni, e che di gente che abbia veramente qualcosa da dire ce ne sia poca.
- Si ritiene prima una collezionista o una mercante d’arte?
No, una mercante per niente. Nonostante faccia una cosa che in teoria mi dovrebbe far guadagnare, io credo di essere fondamentalmente una collezionista. Infatti io non so assolutamente vendere e le cose che compro sono mie e non le venderò mai. Io compro perchè mi piace. La scelta di aprire una galleria è nata dal bisogno e la voglia di parlare continuamente di arte e di incontrare gente ce fa questo di mestiere. Questo mestiere a me piace proprio per il gusto dell’arte.
- Quindi nella scelta degli artisti da esporre prevale il suo gusto personale, non il tipo di investimento e guadagno che comporta?
Assolutamente si! Mentre credo che se tu andassi da altri 100 galleristi, il 90% ti risponderebbe come me ma non sarebbe la verità. A me deve piacere l’artista come persona, se no non lo compro. L’arte contemporanea è un campo in cui puoi conoscere chi la produce, ed è fantastico. Proprio perchè secondo me il quadro in sé, in quanto rappresenta la storia di un artista, acquista il suo massimo valore nel momento in cui lui, in persona, te ne parla. Parte del mio piacere dipende proprio dal rapporto che c’è con l’artista. Anche se, purtroppo, alla fine, come sempre, devi cedere a quelle che sono le leggi di mercato. Per cui tu puoi avere tutte le idee più belle di questo mondo, tutte le poesie di come si dovrebbe fare questo mestiere, però poi, se vuoi pagar dei conti a fine mese devi incominciare a fare buon viso a cattivo gioco. Anche se questo porta alla morte dell’arte.
- Prima ha parlato di televendite, ma perché le interessano se non per seguire le quotazioni delle opere in circolazione?
Per imparare a vendere. Può essere che sia sbagliato non seguire quei parametri. Io ho aperto un anno fa e dai risultati che ho raggiunto direi che sto sbagliando tutto (ride), però io faccio questo mestiere per passione quindi non posso snaturare me stessa, non posso adeguarmi a quello che decide il mercato, perchè a quel punto non mi divertirei più. Finchè potrò permettermelo sarà così, il giorno in cui non potrò più farlo avrò due alternative: adeguarmi, ma non credo, o chiudere.
- Visto il suo interesse a conoscere l’artista, mi permetterei di definire la sua una galleria di giovani, mi sbaglio?
No, non sbagli, anche se non sempre gli artisti sono “giovani” in senso anagrafico, ma in quanto non ancora riconosciuti a livello nazionale o internazionale all’interno del mercato. Ho scelto gli artisti giovani in quanto vanno capiti. Quindi se tu hai la possibilità di parlare, di conoscere un artista e capire la sua storia e da dove viene, forse allora diventa anche un più facile entrare nella sua cultura, che è molto soggettiva.
Ma per poter occuparmi di arte, e in particolare di artisti emergenti, soprattutto in una città come Piacenza, in cui una scelta del genere comporta molti rischi ed ostacoli, sono dovuta partire con l’idea che per almeno due anni avrei dovuto appoggiarmi ad altre gallerie, per capire e conoscere i meccanismi di questo mondo, a me prima totalmente sconosciuto, ma soprattutto per iniziare senza il pensiero di cosa esporre per almeno i primi 12 mesi. Quindi ancora oggi non mi occupo, come vorrei, di scoprire artisti emergenti, anche se ho dei miei artisti. L’artista che sto esponendo adesso, ad esempio, l’ho conosciuto attraverso un'altra galleria.
Io voglio i giovani per dare loro la possibilità di far sapere che esistono e non voglio assolutamente i piacentini per il semplice fatto che hanno già gallerie che se ne occupano, anche se, ripeto, sono in una fase, avendo aperto da solo un anno, in cui faccio qualunque cosa. Deve però piacermi, perché io in fondo devo stare qua 8 ore al giorno, quindi è come stare a casa propria a guardarsi i propri quadri, devono piacerti, no?
- Oltre ad acquistare opere per la sua collezione privata, si sta anche occupando della costruzione di un patrimonio o magazzino della galleria?
Io mi sento costretta a farlo, per il semplice fatto che quando non vendo opere dell’artista che espongo ne acquisto almeno una a nome della galleria. Ma è una mia scelta. E comunque di solito dipende anche dagli accordi che stipulo con l’artista.
- Quindi lei è abituata a stipulare contratti con gli artisti? In cosa consistono di norma?
Dipende, gli accordi variano da un artista all’altro, a maggior ragione se c’è di mezzo un’altra galleria. C’è la volta in cui io compro dei quadri della mostra e l’artista sostiene tutte le spese e quella in cui io mi occupo della realizzazione del catalogo, della rassegna stampa e quant’altro, liberando l’artista da ogni spesa, di modo che, in mancanza di vendita, ci guadagni comunque in curriculum. Non esiste quindi una regola, ma la pratica del contratto è necessaria.
- Che mansioni svolge lei personalmente all’interno della galleria?
In teoria, quando hai una galleria tu devi stare fisicamente a vendere. Io non lo faccio. Primo, perché non so vendere, quindi ho una persona che resta al mio posto, e, secondo, perché mi devo occupare di trovare gli artisti. L’unico modo per conoscerli è girare le fiere, perchè internet non basta, c’è troppa offerta e poi non c’è niente come vedere un opera dal vero. In più, devi andare alle inaugurazioni delle altre gallerie perché, comunque, devi vedere cosa fanno e, purtroppo, devi essere visto per essere riconosciuto dal circuito, poi devi avere rapporti con la stampa che ti crea i cataloghi, con i clienti e, infine, è importantissimo avere un ufficio stampa. In pratica le mansioni che io svolgo sono quelle di andare in giro a cercare gli artisti, e quindi mantenere rapporti con le altre gallerie, e curare l’allestimento delle mostre. (Sorride) Io comunque di secondo lavoro faccio la coltivatrice.
- Prima ha nominato gli artisti e le altre gallerie piacentine. Come si situa Alquindici in questo contesto? Cerca di essere trasgressiva e indipendente rispetto alle altre gallerie d’arte contemporanea o non aveva dei propositi definiti a priori?
Ce li avevo eccome! Tanto è vero che questo lo dico in tutte le interviste che mi fanno: io non volevo una galleria, io volevo un punto d’incontro dove si parlasse di arte, che voleva dire letteratura, musica, cinema, fotografia… Cioè, io volevo un posto dove la gente si sentisse libera di entrare per condividere i propri pensieri.
- Quindi è critica nei confronti delle altre gallerie e dell’idea stessa di galleria d’arte?
Assolutamente. Io detesto essere definita gallerista. Cosa vuol dire? Intanto il gallerista di solito è un mercante, perchè tende al guadagno economico,  e io non lo sono perchè non mi interessa.
- Come si relaziona al Sistema dell’Arte Contemporanea? Trova che la dimensione puramente economica stia prendendo il sopravvento?
Quello che appare evidente è che oggi non esistono più i mecenati, perchè non esiste più nessuno che fa qualcosa per l’arte fine a se stessa. Tutto il discorso è “ma se io compro questo, domani varrà di più?”. L’acquisto non è più regolato dall’idea: se ti piace lo compri, se non ti piace non lo compri. Gli artisti stessi si vendono e ti chiedono “ma secondo te cosa devo fare per vendere?”. Secondo me se entri nel Sistema prima o poi questo ti uccide.
- Cosa pensa delle altre strutture di vendita ufficiali del mercato dell’arte? Ad esempio le Case d’Asta o le Fiere. Vi partecipa? Se si, con che motivazione?
Personalmente io trovo che le Case d’Asta siano una truffa legalizzata, perché tutti sappiamo come funzionano. Mentre le Fiere ritengo che siano un ottimo veicolo, anche perchè devo dire che c’è un sacco di gente che ci va. A prescindere dal meccanismo Fiera – che anche lì ci sono delle mafie pazzesche, quando girano dei quattrini i meccanismi sono sempre quelli, per cui è inutile.
Però, ad esempio, io trovo che una delle più belle d’ Italia sia Artissima, quella che si tiene a Torino. Bologna, infatti, non so perchè è considerata la più importante d’ Italia, quando secondo me non lo è affatto. Per me dopo quella di Torino viene quella di Verona. Purtroppo, per quanto riguarda quella di Milano, come tutte le cose che si fanno a Milano, l’unica cosa che conta è “ci devo essere”, cioè ormai come andare alla Scala. Ormai chi va alla Scala non capisce niente di musica, ma ci va perchè ci deve essere.
Io comunque partecipo alle Fiere perché è l’unico modo per avere dei contatti che siano un po’ più allargati rispetto a questa città in cui sono io. Il vantaggio è che tu hai tante gallerie di più paesi tutte lì, per cui hai un panorama di quella che è in questo momento l’arte in Europa. È tutto concentrato e vivi tre giorni solo di arte.
Per l’arte che propongo io, comincio a pensare che le fiere siano l’unica soluzione per poter vendere, o comunque per crearti una clientela, perchè alla fine il cliente non è quello che cammina per strada o che viene all’inaugurazione, ma tu ti devi creare 5 o 6 persone che si fidino di te e che sono disposte a comprare da te perchè quello che tu gli proponi ha un senso, e sempre che gli piaccia. Perché, quando una persona decide di comprare un’opera deve comunque avere l’appoggio del gallerista o di qualcun altro, perchè ha sempre paura di sbagliare. Quindi è fondamentale creare legami con persone che si fidino di te.
- La sua galleria si occupa specificamente di arte contemporanea. Se non sbaglio, lei intende “contemporaneo”come indice di genere, più che come indicatore temporale, anche se poi espone solo artisti viventi, quindi una scelta cronologica la fa comunque.
Si, sicuramente per me è così. Anche perchè c’è tutto un periodo storico, dagli anni ’70 in giù, che a me non interessa. Perchè trovo che quegli artisti ormai abbiano fatto la loro storia e abbiano avuto le loro possibilità. Anche se non li escludo a priori. Voglio dire non li vado a cercare, se però poi mi capitasse l’occasione non vi rinuncerei. Per me “contemporaneo” vuol soprattutto dire vivente in questo tempo e quindi non ancora conosciuto dalla massa.
- La scelta di pubblicizzare l’inaugurazione della galleria attraverso l’installazione di opere di Cracking art in Piazza Cavalli era solo una scelta di marketing o soprattutto una specie di biglietto di presentazione?
Quella è stata una scelta geniale, secondo me. Che sicuramente non è partita da una scelta di marketing, ma dall’idea che l’arte deve far parte della vita quotidiana e questo può avvenire solo se fai interagire direttamente l’arte con le persone. Quindi il fatto di mettere un opera in piazza voleva far sì che la gente si invogliasse a far dei giri per le gallerie, ma sempre perché io parto dall’idea di spazio di incontro più che di “galleria”. Dopo di che, il fatto che quell’installazione mi abbia portato un sacco di gente all’inaugurazione e che la gente mi fermi per strada chiedendomi se sono “quella dei conigli”, mi è venuto a favore perché vengo ricordata. Ma l’idea non è nata con quello scopo. Poi per come sono fatta io, vorrei almeno ogni due anni creare un evento che coinvolga la città.
- A questo punto, per concludere, vorrei entrare più nello specifico. Alquindici ha fin’ora esposto tre artisti, e presto ne esporrà un quarto. Ma il suo intento, mi sembra di aver capito, è quello di seguire lo sviluppo artistico di chi ha già chiamato ad esporre, soprattutto di quelli che definisce “suoi” artisti. O mi sbaglio?
Certo, tanto è vero che ad ottobre alla Fiera di Verona ho deciso di portare Elisabetta Casella, che alle spalle ha solo la mostra organizzata da me. Io al momento ho tre artisti che lavorano solo con me e non posso pensare di non seguirli da qui in avanti.
- Che caratteristiche deve avere, secondo lei, uno spazio espositivo per valorizzare l’arte contemporanea? E che importanza ha nel successo/insuccesso della mostra?
Questa è una gran bella domanda, a cui non ho mai pensato veramente. Però, secondo me, in uno spazio espositivo ciò che è vitale non è tanto l’architettura quanto l’illuminazione. Perchè una buona illuminazione fa sì che la galleria diventi un posto dove sia piacevole stare. Poi sicuramente uno spazio non deve essere claustrofobico. L’importante è che cambi a seconda delle opere che vi vengono esposte. Perché deve diventare immagine dell’artista che si espone. La cosa più sbagliata è che la struttura architettonica prevalga su qualsiasi altra cosa. Perchè poi rischi che ogni artista appaia uguale. Io credo che struttura architettonica e opera si debbano armonizzare l’una con l’altra.  Comunque sicuramente credo che lo spazio influisca sul successo di una mostra.

IN CANTIERE. Perché dobbiamo continuare a leggere i manuali delle istruzioni?

Oltre che dalla prima neve, l'ultimo weekend di Novembre a Milano, è stato rischiarato da una mostra laboratorio d'arte contemporanea totalmente libera da vincoli tematici, curatoriali e di mercato. Una bella novità.
Da un'idea del curatore meneghino Luca Bradamante, un cantiere edile in una piccola traversa di via Ripamonti ha ospitato per quattro giorni cinque inconsueti "capicantiere" - Paolo Grassino, Mariangela Levita, i Masbedo, Luigi Rizzo e Alessandro Sarra/Stanislao di Giugno - e altrettanti "operai specializzati", responsabili della coordinazione e costruzione "in progress" di un piccolo universo immaginifico, una spontanea e metaforica casa ideale per le loro opere. Gli artisti, finalmente liberi dalle briglie guida dei manuali d'istruzione, sono stati invitati ad affiancare al proprio lavoro, portato autonomamente sul posto o concepito in loco, anche l'opera di altri artisti da loro particolarmente stimati o oggetti speciali di parenti e amici, allo scopo di creare un rivoluzionario open-show.
Momenti cruciali di IN CANTIERE sono sicuramente state le due performance svoltesi il venerdì sera, quando il numero dei visitatori ha toccato il massimo picco. L'intervento performativo di LaHara, IN=OUT, intendeva indagare l'impossibilità della comunicazione verbale, attraverso l'esperienza individuale dello spettatore, mentre la performance culinaria messa in piedi dai Masbedo ha saputo ricreare l'atmosfera dei pranzi al sacco nei cantieri… salvo che per l'ottimo sapore del loro risotto allo champagne!

Paladino: << in bilico, sull’orlo della normalità >>
La celebrazione milanese del maestro campano

Dal 7 Aprile al 10 Luglio 2011 Palazzo Reale, Piazzetta Reale e l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II a Milano accolgono la mostra monografica di Mimmo Paladino (Paduli, 1948).
Curata da Flavio Arensi e promossa dal Comune di Milano, la mostra prende in esame oltre trent’anni di attività del maestro campano, attraverso un nucleo di 50 opere fra dipinti, sculture e installazioni dagli anni settanta ad oggi.
Nato a Paduli, in provincia di Benevento, Mimmo Paladino passa la sua infanzia a Napoli. La sua poetica artistica si sviluppa a partire dalla fine degli anni ’60 e la sua prima personale si tiene a Caserta nel 1969. Ora vive e lavora tra Paduli, Roma e Milano ed è ritenuto uno dei più autorevoli artisti a livello internazionale internazionale.
Affascinato dal clima culturale degli anni ‘60, tra arte concettuale e Pop Art americana, l’artista incentra la sua prima attività sulla fotografia ma le sue eccezionali doti di disegnatore non rimangono a lungo celate. Nel 1977, infatti, realizza un grande pastello sul muro della galleria di Lucio Amelio a Napoli nel quale si può riscontrare una riscoperta della pittura e un recupero del colore, sia nella sua valenza espressiva sia nella sua materialità.
Le opere degli anni ’80 sono in prevalenza dipinti monocromatici dalle tinte decise, sui quali campeggiano immagini astratte e oniriche spazialmente definite da strutture geometriche.
Nel 1980 partecipa alla Biennale di Venezia nella sezione “Aperto” insieme a Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi e Nicola De Maria e, proprio in quell’occasione, il critico d’arte Achille Bonito Oliva propone la definizione di Transavanguardia per la loro arte, ritornata ad esprimersi con la pittura.
Le mostre alle quali l’artista campano partecipa in quegli anni testimoniano quanto la sua pittura sia debitrice nei confronti del passato sia per i contenuti che per le forme e come al tempo stesso sia capace di aprirsi a nuove prospettive.
Dalla seconda metà degli anni ’80, infatti, Paladino si cimenta con grandi sculture in bronzo e con installazioni sperimentando, così, la contaminazione tra diverse forme espressive e inoltre, decide di asciugare la sua arte per spingersi verso un rigore sempre più evidente ed una semplificazione delle strutture.
“Testine minute, spesso ridotte a veri e propri teschi…sospese nell’aria;corpi esangui, quasi scarnificati […] un’arte derivante da un recupero dell’elemento mitico…e dalla ricostruzione di altrettante leggende dei giorni nostri” Gillo Dorfles.
Alla fine degli anni ’90 Paladino realizza diversi cicli pittorici nei quali rende più evidente il suo continuo interrogarsi sul linguaggio dell’arte – perché l’arte, come afferma, “è sempre indagine sul linguaggio” – e si cimenta in altri settori come quello della ceramica e della terracotta, quello scenografico e della stampa d’arte.

La mostra Paladino Palazzo Reale racconta questi trent’anni d’attività per celebrare uno dei più importanti artisti italiani viventi.
Ad accogliere il visitatore, in Piazzetta Reale, è stata ricostruita, a vent’anni di distanza dalla sua prima realizzazione a Gibellina e a quindici anni dal riallestimento in piazza del Plebiscito a Napoli, la Montagna di sale (35 metri di diametro e 10 metri d’altezza), disseminata di cavalli arcaici di quasi 4 metri d’altezza – opera monumentale con la quale, secondo il curatore, l’artista voleva rileggere il rapporto tra arte, gente e spazio urbano.
Inoltre, nel cortile interno di Palazzo Reale, sono stati collocati 4 scudi di cinque metri di diametro ciascuno in terracotta, sui quali sono assommati segni e oggetti, come a voler erigere una struttura in difesa dei valori dell’arte.
Ogni sala al piano nobile di Palazzo Reale è concepita per evidenziare alcuni aspetti linguistici ed estetici della sua opera e come questi ritornino ciclicamente, anche a distanza di molto tempo, attraverso diverse tecniche e materiali.
Dipinti come Silenzio, mi ritiro a dipingere del 1977 o sculture come le Sfere della produzione più recente, per fare un esempio, illustrano i momenti cardine dell’evoluzione creativa di Paladino.
Come di consueto, l’artista non si è risparmiato neanche nell’aspetto allestivo della mostra ed, insieme agli architetti Giovanni Tortelli e Roberto Frassoni, è riuscito ad esaltare la complessità linguistica del suo lavoro attraverso un progetto minimale ma di forte impatto emotivo.
La sala più affascinante e coinvolgente è senza dubbio quella dedicata all’installazione dei Dormienti, nella quale trentadue sculture di figure umane in pezzi, immerse nel buio, vengono cullate dalla composizione eco-acustica di David Monacchi – giovane compositore marchigiano.
In quest’itinerario alla scoperta dell’arte di Mimmo Paladino è stato coinvolto anche l’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele II, dove è stato posto un aeroplano P.180 Avanti, costruito dalla Piaggio Aero, intitolato Cacciatore di stelle, la cui livrea è stata dipinta dal maestro campano.
La mostra è accompagnata da un catalogo edito da GAmm Giunti, con testi del filosofo americano Arthur C. Danto e del critico Germano Celant, insieme ad un intervista del curatore all’artista.
Una mostra molto ben allestita, che coinvolge il visitatore dall’inizio alla fine riavvicinandolo ad una “visionarietà archetipa” – parola di Mimmo Paladino.

Milano celebra GioPonti: tra architettura e design

Grazie alla sua intensa attività di designer e architetto – non solo in territorio milanese – Gio Ponti è universalmente ritenuto uno dei più fecondi ed eclettici maestri del ‘900.
Il 6 Maggio sono state inaugurate due mostre a celebrazione dell’attività pontiana e del suo legame con il capoluogo lombardo.
Nato a Milano nel 1891 – dove morì nel 1979 – a trent’anni dopo aver conseguito la laurea in Architettura al Politecnico di Milano iniziò a lavorare come designer presso l’industria ceramica Richard-Ginori della quale in pochi anni assunse la direzione artistica rielaborandone totalmente la strategia societaria.
Repertori figurativi diversi s’ intrecciano nelle ceramiche pontiane fin dagli esordi. Da un lato ha tratto ispirazione dai repertori dell’antichità classica per quanto riguarda le tipologie, la materialità e l’aspetto decorativo dell’oggetto, dall’altro è ricorso a citazioni di memoria cinquecentesca riprendendo le nozioni di prospettiva e di teatralità neoclassica. Ma Ponti non si limitò a questo. Presto guardò con attenzione anche alle esperienze contemporanee – Metafisica, Novecento, Futurismo – restando affascinato dalla sottile vena d’ironia che le accompagnava.
Nel 1923 espose per la prima volta le proprie ceramiche e maioliche in occasione della Mostra Internazionale di Arti Decorative di Monza ottenendo i primi riscontri critici. Quando vi tornò nel 1927 ai pezzi di grande raffinatezza – opere uniche caratterizzate dal lusso del disegno e dei materiali – prodotti per la Richard-Ginori e per il gruppo Il Labirinto, affiancò mobili e oggetti della linea di arredi Domus Nova nell’intento di immettere sul mercato nuovi modelli di oggetti di uso comune, ma pur sempre di alta qualità artistica, rivolti alla famiglia media.
L’Esposizione presso il Grattacielo Pirelli, “Giò Ponti. Il fascino della ceramica”, aperta al pubblico fino al 31 Luglio 2011, come chiarifica fin dal titolo, vuole rappresentare una documentazione della raffinata ed innovativa produzione di ceramiche realizzate dal designer per la manifattura Richard-Ginori tra il 1923 e il 1930. Attraverso alcune delle serie più note come La Conversazione classica, Le mie donne, La Venatoria, le coppe e la grande cista dedicata al critico d’arte e giornalista Ugo Ojetti, cerca di ripercorrere lo sviluppo del repertorio figurativo pontiano dall’iniziale ricorso alla citazione archeologica alla serialità delle forme e la variazione dei colori conseguente all’avvicinarsi alle esperienze figurative contemporanee.
Nel 1926 aprì uno studio insieme all’architetto Emilio Lancia  e a due anni di distanza fondò la rivista “Domus”, che rappresentò e ancora rappresenta il centro del dibattito culturale dell’architettura e del design italiano.
Negli anni ’30 l’attività di Gio Ponti si estese esponenzialmente. Fu prima chiamato ad organizzare la Mostra Triennale a Milano (1933) ed in seguito a disegnare le scenografie ed i costumi per il teatro La Scala, a partecipare agli incontri dell’Associazione del Disegno Industriale ed a sostenere il premio “compasso d’oro” promosso dai magazzini La Rinascente. In questo periodo inoltre ricevette numerosi premi nazionali ed internazionali.
Designer ormai di fama universale, nel 1936, gli fu offerta una cattedra presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, incarico che mantenne fino al 1961. Durante il periodo d’insegnamento allo studio si unirono ingegneri come Antonio Fornaroli e Eugenio Soncini e l’architetto Alberto Rosselli. Intanto il design come le architetture di Gio Ponti si rinnovavano abbandonando progressivamente i richiami ai repertori del passato neoclassico.
Più variegata è la mostra “Espressioni di Gio Ponti”, curata da Germano Celant in collaborazione con Gio Ponti Archives e gli Eredi di Gio Ponti, che resterà aperta fino al 24 Luglio 2011 presso la sede in Viale Alemagna della Triennale di Milano.
Attraverso oltre 250 tra disegni preparatori, ceramiche, mobili, oggetti, studi e modelli d’architettura, l’esposizione porta all’attenzione del pubblico non solo la figura di Ponti architetto e designer ma anche quella di teorico e critico dell’architettura dando larga visione al suo impegno nella ricerca dei legami tra l’architettura e le arti.
In un ricco e complesso panorama che si apre con un’interpretazione allestiva della celebre “Finestra arredata” di Ponti, progettata dallo studio Cerri & Associati e si chiude con dei filmati di vecchie interviste dai quali si può cogliere una dimensione intima dell’artista, la mostra dedica un focus particolare alle commesse architettoniche americane, come ad esempio alla Cattedrale di Los Angeles (1967), ed in particolare a quelle nel capoluogo lombardo, come il secondo palazzo per la società Montecatini (1951) e il Grattacielo Pirelli (1958) – o “Pirellone“ come sono soliti chiamarlo i milanesi – la Chiesa di San Francesco e quella di San Carlo sempre a Milano, entrambe degli anni ’60.
“Ecco la Tradizione! Ecco nella modernità audace, il vero ritorno alla tradizione vera!” Furneaux Jordan.

Arte al microscopio.
Principia. 8 stanze in cui guardare, muoversi e ascoltare

“I numeri di oggi sono uno stimolo per guardare al futuro e alle prossime edizioni – afferma il presidente di Cosmit, Carlo Guglielmi – Siamo consapevoli che ci attendono sfide importanti.”
In occasione del 50° appuntamento milanese col design, agli ormai tradizionali appuntamenti del FuoriSalone, sono state affiancate nuove iniziative collaterali.
Dopo mezzo secolo d’indiscusso successo come vetrina del mondo dell’arredo quindi, Il Salone Internazionale del Mobile ha dedicato maggiore spazio all’arte contemporanea e all’esplorazione dei connubi tra questa e il design diventandone vero motore propulsivo.
“Principia. Stanze e sostanze delle arti prossime”, allestita in Piazza Duomo dal 12 aprile al 1 maggio, ha ottenuto una grande affluenza di visitatori dimostrando l’importanza crescente di ricerca tecnologica e nuovi materiali anche in campo artistico.
Ideato e curato da Denis Santachiara in collaborazione con Solares Fondazione delle Arti, il progetto poneva l’accento sul potenziale creativo dei principi della scienza attraverso opere di artisti più o meno affermati.
Fra i nomi spiccano Marina Abramovic, Carlo Bernardini, Ludovico Einaudi, Marta de Menezes, Luca Pozzi, Karin Sander, Pablo Valbuena.
Percorrendo le 8 stanze s’incontrano opere visibili solo al microscopio, macchinari che dipingono, sculture che sfidano la gravità e scenari urbani creati a partire da algoritmi matematici per arrivare ad artisti che sfruttano per le loro installazioni il principio del suono spazializzato 3D, solo per citare alcuni esempi.
“Il legame tra il momento espositivo, principalmente dedicato al business, e gli eventi culturali organizzati in città – conclude il presidente Guglielmi – si è molto rafforzato in questi anni. Il nostro obiettivo è quello di rafforzare la nostra presenza nella città di Milano e il nostro ruolo di ente promotore di eventi culturali di alto livello.”

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