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Rovereto in Wonderland

Al Mart di Rovereto, fino al 3 giugno 2012, sarà possibile visitare Alice in Wonderland, la prima mostra che affronta e analizza in modo completo l’influenza che il favoloso mondo creato da Lewis Carroll ha esercitato sull'universo delle arti visive.

La mostra, organizzata dalla Tate Liverpool (4 novembre 2011 - 29 gennaio 2012) in collaborazione con il Mart e con la Kunsthalle Hamburg (15 giugno - 30 settembre 2012) è stata ideata e curata da Christoph Benjamin Schulz e Gavin Delahunty, con l’assistenza di Eleanor Clayton e programmata da Gabriella Belli, ex direttrice del Mart,ora alla direzione dei Musei Civici di Venezia.

Attraverso disegni, dipinti, fotografie, poster e oggetti della quotidianità, la mostra racconta un’epoca, una società e il lungo lavoro di Carroll dedicato ad Alice, ma soprattutto le numerose influenze che questa celebre opera e le sue immagini hanno avuto nella cultura artistica moderna e contemporanea, dai dipinti dei surrealisti, agli artisti della Pop Art fino ai protagonisti dell’arte contemporanea come Sigmar Polke e Kiki Smith.

Alice in Wonderland offre un’opportunità unica di comprendere la vicenda umana e artistica di Charles Lutwidge Dodgson, in arte Lewis Carroll (1832 – 1898), a partire dalla sua vasta e personalissima produzione fotografica.
Carroll lasciò una produzione totale di circa tremila fotografie, una delle più vaste testimonianze fotografiche dell’Inghilterra vittoriana.
L’affascinante percorso espositivo, arricchito da prespaziati creati dallo studio grafico Headlines di Rovereto, prende avvio dalla prima edizione a stampa pubblicata a Londra da MacMillan nel 1865 col titolo Alice’s Adventures in Wonderland. Lewis Carroll curò personalmente le illustrazioni di questa prima edizione, disegnate da Sir John Tenniel, in modo che le immagini fossero parte integrante della storia. Il ruolo delle immagini è stato del resto completamente centrale fin dalla genesi dell’opera. In mostra, infatti, è presente una riproduzione del manoscritto originale con disegni autografi di Lewis Carroll, composto nel 1864 durante una gita in barca con la famiglia Liddle e donato dall’autore alla minore delle bambine, Alice, come regalo di natale nello stesso anno.
Oltre ai manoscritti, i servizi da thè e le carte da parati ispirati al romanzo l’esposizione presenta una serie di fotografie scattate da Dodgson alla famiglia Liddle in parallelo alle opere di Rossetti, Millais ed ai dipinti di Hunt e Huges. Lewis Carroll era ben integrato nella scena artistica del suo tempo: fotografo ed esperto d’arte si circondava di amici artisti come Dante Gabriel Rossetti e Sir John Averett Millais, che più volte immortalò nei sui scatti, e come William Holman Hunt e Arthur Hughes, di cui scrisse nei suoi diari.
Un’altra sezione della mostra documenta come le storie di Carroll siano state adottate da molti artisti visivi come fonte di ispirazione tematica per le proprie ricerche. A partire dal 1930, ad esempio, il gruppo dei surrealisti sentì una forte attrazione per il fantastico mondo in cui erano ambientate queste storie, in cui le leggi di natura erano come sospese. Ecco allora una serie di dodici illustrazioni di Salvador Dalí, opere di Max Ernst e Dorothea Tanning, ma anche un eccezionale film di René Magritte, intitolato semplicemente “Alice in Wonderland”, del 1957. I Surrealisti inglesi, soprannominati “figli di Alice”, sono rappresentati da opere di Paul Nash, Roland Penrose, Conroy Maddox e F.E. McWilliam.
Gli artisti hanno continuato a trarre ispirazione dalle avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie anche negli anni successivi. Alcuni temi in particolare, restano molto attraenti per la ricerca artistica contemporanea: il viaggio dall’infanzia all’età adulta; i rapporti tra linguaggio, significato e nonsense; le relazioni tra la dimensione dell’osservatore e l’ambiente che lo circonda, tra le diverse prospettive e la tensione tra percezione e realtà.
Tra gli anni Sessanta e Settanta, l’arte concettuale vide in Alice uno strumento per l’esplorazione della relazione tra realtà e percezione, come si vide dalle opere di Jan Dibbets, Dan Graham, Joseph Kossuth, Yayoi Kusama, Adrian Piper, e Marcel Broodthaers.
Il canone letterario e visivo inaugurato da Carroll è stato sottoposto nel corso degli anni a una revisione continua, che lo rende sorprendentemente attuale e significativo per la ricerca contemporanea. Lo testimoniano le cinque straordinarie fotografie di Francesca Woodman scattate tra il 1972 e il 1980, il doppio video di Douglas Gordon “Through a Looking Glass” (1999) e quello di Pierre Huyghe “A smile without a cat” (2202), i disegni di Kiki Smith, i collage di Liliana Porter, le fotografie di Anna Gaskell, e lavori più recenti di Joseph Grigely, Torsten Lauschmann, Jimmy Robert e Annelies Štrba.
In occasione dell’inaugurazione, l’attuale direttrice del Mart Cristiana Collu, ha voluto dare un’impronta personale ad un progetto messo in cantiere prima del suo incarico. Venerdì 24 febbraio scorso l’intera popolazione roveretana, e non solo, è stata inaspettatamente invitata al Mart a visitare gratuitamente le mostre ed a partecipare ad un cocktail party offerto da Campari soda, che quest’anno festeggia i suoi ottant’anni, accompagnato dalla musica anni ’70 di dj Volcov.

Afro. L’italiano che conquistò l’America al Mart di Rovereto.

A cent’anni dalla sua nascita, Il Mart di Rovereto dedica una retrospettiva ad uno degli artisti italiani più rappresentativi a livello internazionale, Afro Basaldella, esponendo per la prima volta in Italia 39 opere, di cui 4 mai esposte in Europa, custodite nelle principali collezioni pubbliche e private americane.

Dal 17 marzo all’8 luglio 2012, nelle sale del Mart va in scena la mostra Afro. Il periodo americano, a cura di Gabriella Belli in collaborazione con l’Archivio Afro di Roma. Il progetto espositivo ricostruisce i dieci anni
(1949 – 1958) di intenso lavoro e di fruttuose relazioni private che hanno caratterizzato il suo soggiorno americano, attraverso una rilettura delle sue opere in un serrato confronto con la pittura informale internazionale degli anni Cinquanta.

Erroneamente, infatti, gli studiosi hanno dedicato maggiore attenzione all’influenza dell’espressionismo astratto americano sulla pittura europea di quel periodo, e quindi agli avvenimenti che l’hanno resa possibile – come il trasferimento di Peggy Guggenheim e della sua collezione da New York a Venezia – sottovalutando il contributo paneuropeo a quelle stesse tendenze.

Afro Libio Basaldella, nato il 4 marzo 1912 a Udine da una famiglia di decoratori e orafi, dopo aver oscillato, nelle sue prime opere degli anni ’20 e ’30, tra soluzioni compositive debitrici alla pittura dei grandi maestri veneziani e memori della lezione Novecentista e alle modalità espressioniste della Scuola di Via Cavour, negli anni della seconda guerra mondiale accetta un incarico d’ insegnante di mosaico presso l’Accademia di belle arti di Venezia e, grazie all’incontro con artisti e critici attivi nella città lagunare, avvia un ripensamento sulla lezione della pittura francese ed in particolare su quella di Cezanne, Van Gogh e del neocubismo degli artisti a lui contemporanei.
La pesante atmosfera che si respira in Italia durante il periodo bellico – oltre all’incomprensione da parte della critica italiana verso il suo lavoro – contribuisce a spingere Afro verso nuovi e più assidui contatti con l’ambiente americano, con cui era entrato in contatto grazie alle conoscenze della moglie Maria e dell’amicizia con Cagli.
Tra le numerose mostre collettive alle quali prende parte Afro negli Stati Uniti le più importanti sono: XX Century Italian Art, allestita nel 1949 al MoMA di New York – la prima panoramica completa del modernismo italiano organizzata oltreoceano e la prima a mostrare l’influenza reciproca tra le poetiche artistiche dei due continenti – e Five Italian Painters con la quale, nel 1950, inaugura la galleria newyorkese di Catherine Viviano ed in occasione della quale l’artista si reca per la prima volta personalmente oltreoceano.
La collaborazione tra il pittore e la gallerista di origini italiane, durata due decenni, forma un capitolo importante e finora poco indagato nella storia della ricezione dell’arte italiana negli Stati Uniti.
Catherine Viviano fa affidamento sull’arte di Afro e sui suoi contatti personali – grazie ai quali entra in contatto con il Gruppo degli Otto e con altri artisti della scena italiana – per dominare il mercato nazionale e contemporaneamente e, attraverso prestiti prestigiosi, contribuisce allo sviluppo della fama dell’avanguardia modernista italiana sul suolo americano.
Le opere di Afro esposte alla Catherine Viviano Gallery a più riprese, dal 1950 al 1968, incantano da subito la critica americana e contribuiscono ad attirare finalmente anche l’attenzione del panorama critico italiano sull’artista friulano.
Nel 1955 Afro è tra gli artisti italiani più noti negli Stati Uniti e partecipa, oltre ad altre mostre in tutta Europa, alla grande collettiva organizzata dal MoMA The New Decade: 22 European Painters and Sculptors, dove vengono presentate le principali tendenze dell’arte non figurativa europea.
Le opere del periodo americano rivelano la persistenza di molte influenze europee, se non addirittura romane, e il raggiungimento della piena maturazione della tavolozza attutita a cui era giunto nell’immediato dopoguerra. Contemporaneamente, però, dimostrano anche un progressivo avvicinamento da parte di Afro alla pittura “all-over” praticata dalla Scuola di New York.
Infatti, la sua pittura si fa sempre più fluida, spontanea, le tracce di iconografie riconoscibili iniziano a dissolversi in atmosfere sospese, immobili, giungendo negli anni all’abbandono definitivo della figurazione, dissolta nei suoi elementi costitutivi – la linea e il colore – . Abbandona il retaggio cubista del monocromo per concentrarsi sull’intersezione di campi cromatici ampi e volatili e libera il segno verso un’astrazione quasi totale, pur mantenendo sempre la realtà come riferimento di partenza per i suoi lavori.
Nel 1956 partecipa, con una sala tutta sua, alla XXVIII Biennale di Venezia e vince il premio di miglior artista italiano. Nel 1958 l’UNESCO commissiona a lui e ad altri grandi artisti contemporanei un’opera murale per la nuova sede dell’organizzazione a Parigi. Questi due eventi consacrano, ancora una volta, il prestigio della galleria di Catherine Viviano e dell’artista in America.
Alla metà degli anni sessanta Afro è un investimento sicuro.
Contemporaneamente al Mart inaugura anche Gina Pane. (1939-1990). “E’ per amore vostro: l’altro.”, prima mostra antologica dedicata all’artista di origini italiane, nata da un’idea di Gabriella Belli e a cura di Sophie Duplaix con la collaborazione di Anne Marchand (erede dell’artista).

Gina Pane: un ponte fra terra e cielo

Gina Pane (1939-1990) “E’ per amore vostro: l’altro”: si è aperta con questo titolo, a prima vista un po’ singolare per chi ha avuto modo di avvicinare l’opera dell’artista, la prima mostra antologica dedicata alla performer francese di origini italiane.

​Gina Pane, infatti, è conosciuta in tutto il mondo come Body Artist per le sue emozionanti – per non dire scioccanti – performance, ma, come ha attentamente sottolineato la curatrice durante la conferenza stampa di presentazione della mostra, per la prima volta “qui é possibile vedere tutta la sua opera”.
Nata da un’idea di Gabriella Belli e curata da Sophie Duplaix – curatrice capo delle collezioni di arte contemporanea del Centre Pompidou di Parigi –  con la collaborazione di Anne Marchand – erede dell’artista –, la retrospettiva è visibile negli spazi del Mart di Rovereto fino all’8 luglio 2012.

Troppo spesso, purtroppo, il percorso artistico di Gina Pane viene erroneamente identificato con le sue sole ‘azioni’ e quindi, suo malgrado, ridotto alla sola indagine sulla dimensione corporea, tralasciando il corpus più consistente e rivelatore della sua poetica.

La complessità della sua tematica e la coerenza concettuale che caratterizza le varie fasi della sua produzione emergono, invece, con chiarezza lungo il percorso espositivo, che si avvale di oltre 160 opere provenienti dai maggiori musei d’arte contemporanea e da importanti collezioni private, svelando progressivamente l’evoluzione del suo vocabolario simbolico.
Il tema del sacro, per esempio, il motivo della croce e il dono di sé all’altro, si ritrovano in tutto il lavoro dell’artista: dai dipinti geometrici alle Structures affirmées realizzati fino al 1967, alle azioni degli anni Sessanta e Settanta, fino a Solitrac – l’unica opera cinematografica mai realizzata dall’artista – e alle Partitions e Icones compiute dal 1980 fino alla sua prematura morte.
La mostra presenta un importante nucleo delle prime opere realizzate dall’artista, per la maggior parte inedite. Attratta dalla geometria strutturale minimalista e dalla forza del colore, negli anni Sessanta Gina Pane crea dipinti e “strutture” che da un lato rivelano la sua formazione di pittrice e al contempo segnano il punto d’avvio per un’approfondita ricerca sullo spazio.
"Un tema chiave di Gina Pane agli esordi é il desiderio di trovare un legame con la natura" perchè "per [lei] l'artista é un tramite tra dimensione terrestre e spirituale" dice Sophie Duplaix.
Enfoncement d’un rayon de soleil (1969) e Terre Protegè I, II e III (1968-70), ad esempio, sono “azioni nella natura”, documentate dall’obiettivo fotografico di Françoise Masson, nelle quali Gina Pane pone il proprio corpo in dialogo e a protezione degli elementi naturali, per evidenziare l’aspetto vitale e nutritivo della terra e il legame simbiotico tra uomo e natura.
Per l’artista la documentazione fotografica, o constat photographique, rappresenta il punto essenziale delle sue ‘azioni’, ancor più dello svolgimento effettivo della performance. “Il corpo che è, al tempo stesso progetto/materiale/esecutore di una pratica artistica, trova il suo supporto logico nell’immagine, attraverso il mezzo fotografico.” ebbe modo di spiegare chiaramente a suo tempo Gina Pane.
Nulla, infatti, veniva lasciato al caso: l’angolazione dello scatto e il montaggio della sequenza fotografica venivano stabilite da Gina già nelle primissime fasi dello sviluppo dell’opera.
Escalade non anesthésiée (1971) è la prima performance, anche se realizzata nel suo studio senza un pubblico, nella quale introduce l’elemento del dolore fisico, che poi rielaborerà in Azione sentimentale (1973), Azione Io mescolo tutto (1976), Action Psichè (1974) - 27 pannelli esposti al Mart di Rovereto per la prima volta in assoluto - e molte altre, più conosciute al grande pubblico.
Come afferma il titolo stesso dell’esposizione “E’ per amore vostro: l’altro” – con una citazione ripresa da Lettre à un(e) inconnu(e), testo scritto da Gina e pubblicato dopo la sua morte grazie ad Anne Marchand – il gesto del tagliarsi è per l’artista il mezzo ideale per avvicinarsi all’altro e al contempo donargli, attraverso il proprio sangue che sgorga, la sua energia vitale.
“Il vero motivo per cui Gina si feriva: mostrare col sangue il proprio amore e invitare l'altro a rispondere" parola di Sophie Duplaix.
Le Partitions, installazioni e sculture smaterializzate rivolte ad evocare le azioni precedenti, e le Icones, opere ispirate ai santi e ai martiri in cui la scelta e il trattamento dei materiali diventano preponderanti, sono le ultime sperimentazioni da lei intraprese prima della malattia e concludono il percorso espositivo martiano lasciando a bocca aperta più e meno esperti.
“Il corpo dei santi mi incanta, quegli uomini, quelle donne hanno superato il limite del corpo carnale unicamente radicato a terra dai problemi del nostro mondo. […] Quello che mi interessa nel modo in cui esso ha potuto trasformarsi è il momento in cui si sente che lo spirito è preso nella materia. Oggi non potrei lavorare il corpo santo se non avessi percorso quel lungo cammino che lo precede.” Gina Pane in Gina Pane (1939-1990). "È per amore vostro: l'altro" catalogo della mostra in corso al Mart, edito da Electa.

SCOPERTI GLI ALBORI PREFUTURISTI DI FORTUNATO DEPERO!

Un album di fotografie delle foreste della Val di Fiemme appartenente al Touring Club Italiano, recentemente ritrovato ed identificato grazie alla collaborazione tra Mart e TCI, ci mostra aspetti inediti dell’artista trentino.

L’album, fortuitamente rinvenuto dalle archiviste Luciana Senna ed Elisabetta Porro durante il trasloco del Centro di Documentazione del Touring Club Italiano nella nuova sede, avvenuto nel febbraio 2009, racchiude in sè stampe fotografiche in bianco e nero e gelatine ai sali d’argento, abbellite da decorazioni ad acquarello, china e biacca eseguite dal giovane Depero.
L’attribuzione è certa: ciascuna immagine, infatti, è commentata da didascalie e incorniciata da disegni di Fortunato Depero datati 1912.
Nessuno fino ad oggi aveva riconosciuto ufficialmente l’intervento decorativo di Depero.

Fino a questa importante scoperta, infatti, si conosceva poco dell’attività artistica di Fortunato Depero negli anni tra il 1909, nel quale frequentava la Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, e il 1914, nel quale si trasferisce a Roma per avvicinarsi al movimento futurista.

L’album è attualmente al centro della mostra “DEPERO 1912. Il Touring Club Italiano tra futurismo e irredentismo” a cura di Nicoletta Boschiero, visitabile a Casa d’Arte Futurista Depero fino al 2 settembre 2012.
Questa esposizione, oltre a mostrare i primi passi del giovane artista negli anni che precedettero la grande avventura futurista, racconta una parte di storia irredentista trentina.
Le ricerche svolte da Nicoletta Boschiero,  presso l’archivio della Magnifica Comunità di Fiemme e l’Archivio del Museo Storico di Trento, hanno, infatti, messo in luce il legame tra l’album rinvenuto, Mario Rizzoli e il TCI. Attraverso la lettura della corrispondenza tra Rizzoli e Touring Club Italiano e dei numeri di “Rivista Mensile” - pubblicata dall’associazione -, la curatrice ha potuto ricostruire i processi di formazione dell’album ed i rimaneggiamenti subiti dalle fotografie contenute in esso durante i decenni successivi.
Nel 1912 Mario Rizzoli, decide di confezionare un album fotografico dedicato alla Val di Fiemme da donare all’associazione “Touring – Club – italiano strenuo propugnatore del rimboschimento d’Italia [...]”, ispirandosi a due album fotografici confezionati dall’ente in occasione della Exposition Universelle di Parigi del 1900.
L’imprenditore trentino attinge alle fotografie degli album già esistenti e commissiona la loro decorazione ed impaginazione al giovane Depero, conosciuto in quegli stessi anni a causa del fervido irredentismo che li accomunava.
“Depero imposta la struttura iconografica dell’album cercando ausilio in un impianto architettonico che spesso incornicia la foto, costituito da fregi, cariatidi o telamoni utilizzati come elementi di sostegno. Questi elementi, a guisa di colonne, hanno una funzione di supporto, diventando la metafora della fatica e dell’ impegno della gente fiemmazza, rappresentata nelle vignette all’ inizio dell’album da raccoglitrici di semi e da boscaioli.” Nicoletta Boschiero, catalogo edito da Silvana Editoriale.
Il corpus principale della mostra è costituito da una serie di disegni, acquarelli e dipinti ad olio raffiguranti i boschi della Val di Fiemme, vivai ed azioni legate allo sfruttamento delle foreste per acquisire legname.
Il percorso della mostra è arricchito da una selezione di dipinti e disegni eseguiti da Depero nello stesso periodo, provenienti dalle raccolte del Mart, e da una serie di riviste del Touring Club Italiano.

ANIHCCAM MOTION!

Dopo il successo internazionale ottenuto nel 2010 dalla versione digitale dei Balli plastici (1918), il professor Franco Sciannameo e i suoi alunni dell’istituto di studi avanzati d’arte elettronica hanno presentato, per la prima volta, a Casa d’Arte Futurista Depero il balletto meccanizzato Anihccam del 3000.
Fortunato Depero progettò Anihccam del 3000 insieme al compositore barese Franco Casavola nel 1924, per tornare alla ribalta dopo l’insuccesso di Chant du Rossignol.

Per la prima volta, in quello spettacolo, Depero abbandonò le sue care marionette per far recitare veri attori travestendoli da locomotive. I due umanoidi si contendevano, a suon di passi di danza, l’amore di un ignaro capostazione, senza giungere però a decretare un vinto ed un vincitore.

A testimonianza dello spettacolo teatrale futurista rimangono un poster e un bozzetto della scenografia, conservati nella collezione permanente del Mart, dai quali il docente della Carnegie Mellon University di Pittsburg e il suo collega Don Marinelli, hanno estrapolato il soggetto ideato da Depero per crearne una versione il più fedele possibile.

Attraverso tecniche cinematografiche e d’animazione, disegni 3D costruiti sull’immaginario futurista e grazie a strumenti di rilevazione del movimento – motion capture – applicati a ballerini professionisti, il team di studenti dell’Entertainment Technology Center (ETC), coordinati dai due docenti, hanno prodotto in un solo semestre la loro variazione sul tema.
Su richiesta di Sciannameo il gruppo di lavoro, composto da Noah Alzayer, Chengfu Chen, Kan Dong, Steven Kones, Maria Tartaglia, Mohit Sadhu, Paola Soriano, MZ Zhang, ha dato forma ad un’interpretazione della storia totalmente personale.
Il video digitale Anihccam del 3000 non racconta più la storia di due locomotive che lottano tra loro per ottenere l’amore del capostazione ma quella dell’amore che le unisce.
Il video si sviluppa  attraverso tre momenti fondamentali: il primo è quello della partenza delle due locomotive da una stazione del futuro, ricavata da schizzi di Sant’Elia e accompagnato dalle musiche di Luigi Russolo; il secondo è il viaggio percorso dalle due locomotive attraverso paesaggi pastorali, identici a quelli dipinti da Depero, cullate come in una danza da musiche di Stravinski; e l’ultimo è il momento in cui le due locomotive, arrivate alla stazione di destinazione, subiscono una metamorfosi in umanoidi seguita da un balletto a due su musiche di Delibes.
Alla proiezione, avvenuta mercoledì 2 maggio nelle sale espositive della casa deperiana, ha fatto seguito l’illustrazione dei processi di lavorazione alla base del video da parte del team e un dibattito, aperto al pubblico di più o meno giovani presenti in sala, sulle altre possibili interpretazioni della storia del genio futurista.

UN’ITALIANA ALLA BIENNALE DI BERLINO.

Difficile da immaginare, per un’italiana abituata all’impostazione veneziana, che la mecca dell’arte contemporanea organizzi una Biennale così silenziosa. Nessun cartellone pubblicitario, nessuna indicazione stradale, nessun evento collaterale che attiri l’attenzione dei più o meno intenditori durante la seconda settimana della 7ima Biennale tedesca.

Tra opere site specific irriconoscibili dall’arredo urbano – come “Peace Wall” dell’artista bosniaca Nada Prlja, che facilmente si confonde con i milioni di cantieri aperti in città, e l’opera “Re-branding European Muslin” del Movimento Pubblico, che si mimetizza con le altre campagne pubblicitarie che appestano i grattacieli – e ricostruzioni storiche – come quella dell’artista e storico Maciej Mielecki della Battaglia di Berlino del 1945, della quale rimane solo la documentazione fotografica dell’evento esposta negli spazi della Deutschlandhaus – lo smarrimento iniziale si trasforma in sbigottimento.

Molti i workshop, i dibatti e i congressi nella sede del KW Institute for Contemporary Art e negli altri epicentri dell’arte contemporanea berlinese, ma poche le opere.

Il pool curatoriale, composto dall’artista polacco Artur Zmijewski, la curatrice Joanna Warsza e il collettivo russo Voina, ha voluto essenzialmente creare una piattaforma nella quale condividere e lanciare messaggi politici e sociali più che un’esposizione d’opere. Un progetto molto simile a quello sviluppato per Manifesta7 che per ora però sembra deludere le aspettative.
Una biennale che, usando le parole espresse dai curatori, invita il “mondo dell’arte a divenire politicamente responsabile” e gli artisti a creare opere provocatorie, per urlare la propria rabbia verso un sistema politico, e di conseguenza verso il sistema curatoriale che ne deriva, che ostacola lo sviluppo culturale.
“Grazie al linguaggio delle arti visive abbiamo voluto dare la parola a differenti gruppi sociali che volessero esprimere i propri interessi e le proprie aspettative” Ha affermato Joanna Warsza intervistata da Artribune.
Aspettative chiare quelle dell’artista palestinese Khaled Jarr che sentenzia, con un’opera-timbro da imprimere sui passaporti o sui visitatori stessi, l’esistenza di uno stato non ancora riconosciuto.
All’interno della sede ritenuta tradizionalmente principale, il KW appunto, su una parete di una piccola sala è stata creata una mappa grafica del progetto ArtWiki. I curatori, infatti, in seguito all’ alto numero di richieste di partecipazione alla manifestazione e all’enorme consenso ottenuto dalla loro scelta di trattare tematiche socio-politiche, hanno deciso di realizzare uno spazio espositivo digitale, che funge anche da archivio consultabile, nel quale gli artisti sono suddivisi per inclinazione politica. L’idea dei curatori è che il sito www.artiwiki.org resti attivo anche dopo la chiusura della Biennale e venga, di edizione in edizione, aggiornato diventando una piattaforma grazie alla quale gli artisti possano interloquire, scambiarsi informazioni sulle loro attività ed esporre le proprie opinioni politiche.

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