top of page
Man Ray Portraits
Finding Michelangelo Antonioni

Man Ray Portraits è la prima retrospettiva dedicata alla ritrattistica fotografica di Man Ray e comprende opere mai esposte prima in Inghilterra, annoverando fotografie provenienti da collezioni private e dai maggiori musei, come il Pompidou Centre, il J. Paul Getty Museum e il MoMa e il Metropolitan Museum of Art di New York, e speciali prestiti dal Man Ray Trust Archive.

L’esibizione, che si è aperta il 7 febbraio 2013 alla National Portrait Gallery di Londra, presenta più di 150 stampe vintage scattate durante l’arco della carriera di Man Ray tra il 1916 e 1968, celebrando la sua versatilità e le sue sperimentazioni, oltre che la sua carriera di fotografo per riviste prestigiose come Vogue, Vanity Fair e VU magazine. 
Sono anche visibili le numerose fotografie dei suoi personali, e spesso intimi, amici, amanti e conoscenti dei movimenti artistici del suo tempo: da Marcel Duchamp, André Breton, Jean Cocteau, Georges Braque a James Joyce, Erik Satie, Henri Matisse,  Igor Stravinsky, Yves Tanguy, Salvador Dali, Le Corbusier, Pablo Picasso, Virginia Woolf, Aldous Huxley e Coco Chanel, dalle sue amanti Kiki de Montparnasse e Lee Miller alla sua ultima musa e moglie Juliet Browner.

Il percorso cronologico della mostra segue i viaggi dell’artista a Parigi (1921-37), Hollywood (1940-50) e il ritorno a Parigi (1951-76), e mostra le prove che lo condussero alla creazione dei Rayograms senza l’utilizzo della camera e al processo di Solarizzazione, inventato con la sua musa e amante Lee Miller – che consiste nella creazione di immagini su pellicola fotografica attraverso una doppia esposizione alla luce, che induce un processo di inversione tonale parziale cosìcchè le aree scure appaiano chiare e viceversa – arrivando fino alle fotografie a colori dei primi anni cinquanta, sorprendentemente simili alla pittura.
Nato Michael Emmanuel Radnitzky a Filadelfia nel 1890, Man Ray inizialmente utilizzò la fotografia come mero strumento di riproduzione dei suoi lavori artistici. L’inizio della produzione fotografica di Man Ray, che l’avrebbe reso famoso, è datato attorno al 1916, quando scattò il suo autoritratto in stile Dada e il ritratto fotografico di Marcel Duchamp.
La sua amicizia con Duchamp, iniziata nel 1915 al Ridgefield Artist Colony in New Jersey, spinse Man Ray a trasferirsi a Parigi nel 1921, dove, come collaboratore esterno ai movimenti Dada e Surrealista, si dimostrò un perfetto documentatore dell’arte d’avanguardia dei suoi contemporanei e amici. In questo periodo, inoltre, produsse i Rayograms e sviluppò il processo di Solarizzazione. Questa innovativa invenzione può esser ammirata in mostra nei ritratti di Elsa Schiaparelli, Irene Zurkinden, Lee Miller, Suzy Solidor e in Self-Portrait with Camera.
In seguito allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Man Ray lasciò la Francia per ritornare in America e prese casa ad Hollywood. Ufficialmente in quegli anni si dedicò maggiormente alla pittura, ma ricerche più approfondite hanno rivelato che produsse un gran numero di significanti ritratti fotografici, dei quali molti sono presentati per la prima volta nella mostra londinese.
Attori cinematografici come Ruth Ford, Paulette Goddard, Ava Gardner – nel suo famoso ruolo di Pandora nel film di Albert Lewin Pandora and the Flying Dutchman – , Tilly Losch e Dolores del Rio. A Hollywood incontrò anche Juliet Browner, una ballerina e modella di 28 anni che sarebbe diventata sua musa e compagna di vita per i futuri trentasei anni.
Tornato a Parigi nel 1951, fece della città ancora una volta la sua casa fino alla morte nel 1976. Durante questo periodo, Man Ray si dedicò principalmente alla creazione di pubblicazioni sul suo lavoro, alla stesura della sua autobiografia Man Ray Self-Portrait (1963) e contribuì all’organizzazione di molte mostre retrospettive. Tuttavia i ritratti fotografici che scattò negli anni cinquanta includono esperimenti con il colore, come ad esempio quello di Juliette Greco e quello di Yves Montand. Il percorso espositivo di Man Ray Portraits, a cura di Terence Pepper, si conclude con il famosissimo ritratto dell’attrice Catherine Deneuve scattato dal fotografo nel 1968.

JEFF WALL

L’attualità di Jeff Wall nasce in studio, attraverso l’utilizzo di scenografie e attori, dove ogni avvenimento viene pianificato nel dettaglio, per poi essere fotografata più e più volte e spesso modificata digitalmente. In questo modo la pellicola acquisisce l’attimo esatto della realtà voluto dal fotografo, meglio di quanto avrebbe potuto fare la macchina fotografica davanti alla scena reale.

Questo concetto rivisitato di “attualità”, alla base della poetica del fotografo canadese (1946, Vancouver), viene enfatizzato dal curatore Francesco Bonami in occasione della prima retrospettiva dedicata all’artista su suolo italiano, intitolata appunto Actuality, in corso al PAC.
Il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano ha accolto, fino al 9 giugno 2013, una selezione di quarantadue opere del fotografo – tra lightboxes, che ne hanno decretato la fama, e stampe in bianco e nero e a colori anche di dimensioni colossali –, molte delle quali presentate per la prima volta in Italia e provenienti dalle più importanti collezioni internazionali.Pioniere della fotografia concettuale o post-concettuale della cosiddetta “Scuola di Vancouver”, è stato ospitato dalle più importanti manifestazioni artistiche, come a Documenta di Kassel e alla Biennale di Venezia, ed è stato protagonista di grandiose mostre personali nei principali musei del mondo, incluso il MoMA di New York (2007), il San Francisco Museum of Modern Art (2008) e la Tate Modern di Londra (2005).Con le sue riflessioni sul mezzo espressivo, sulle tecniche e sui materiali fotografici, e con le sue digressioni artistico–filosofiche, Wall ha aperto la strada a innumerevoli altri artisti contemporanei, da Andreas Gursky a Thomas Ruff, influenzandoli con il suo lavoro.Dalla mostra emergono differenti livelli di lettura dell’opera del fotografo, che nel complesso rivela una critica pungente della realtà in cui viviamo. Attraverso i suoi scatti, infatti, Wall narra storie di vita quotidiana affrontando tematiche che variano dal sociale al politico, dal personale al pubblico.

Le fotografie a colori Pawnshop, In front of a nightclub e Band & Crowd, ad esempio, rappresentano caratteristiche scene di vita sociale ordinaria: la prima rappresenta due persone intente a vendere oggetti al banco dei pegni, la seconda delle persone all’ingresso di un locale notturno e la terza un concerto rock. Wall ricostruisce queste scene reali congelando i gesti e gli sguardi dei personaggi per raccontare delle storie – o per meglio dire la sua actuality – condensate in un solo fotogramma e volontariamente ricreate in modo talmente meticoloso da sembrare irreali.

Young man wet with rain, invece, è uno dei pochi lavori in cui il fotografo si concentra sulla figura umana, donandole la monumentalità di una figura classica e riducendo al minimo i riferimenti ambientali.I titoli hanno sempre una funzione molto importante nel lavoro di Wall, in quanto spingono l’osservatore a porsi delle domande di fronte alle immagini e quindi a indagare maggiormente la realtà che esse inscenano. Difficile guardare Young man wet with rain senza avvicinarsi a cercare la pioggia, una pioggia che in realtà non c’è.Jeff Wall oltre a essere uno dei più innovativi fotografi degli ultimi trentanni è autore di saggi e testi critici, e la sua ampia conoscenza della storia dell’arte è testimoniata dalle citazioni di grandi capolavori del passato o da scene di famosi romanzi a cui ricorre spesso nelle sue fotografie.

Mimic, una delle fotografie più conosciute dell’artista – esposta insieme ad altri due scatti in una sala dedicata a scene di violenza latente (A man with a rifle e Blood stained garment) –, si ispira a un famoso dipinto del 1877 di Gustave Caillebotte, Rue de Paris, Temps de pluie, nel quale un’innocua coppia di borghesi viene minacciata da un passante solitario. Nella trasposizione contemporanea di Wall la potenziale minaccia si trasforma in odio razziale: attraverso un unico gesto inconfondibile il fotografo, infatti, riesce a far percepire all’osservatore gli intenti violenti di un uomo ancora prima che la violenza abbia luogo.

After Spring Snow, byYukio Mishima, chapter 34, invece, è un omaggio allo scrittore e drammaturgo giapponese e, più di tutte le altre fotografie esposte, ha quella dimensione pittorica che, come dice Bonami, fa ripensare ai quadri di Manet, Courbet e di altri “pittori della vita moderna”.Tra le opere più interessanti da evidenziare ci sono sicuramente i suoi famosi lightbox, che richiamano il linguaggio pubblicitario tipicamente americano e sono diventati negli anni il segno più riconoscibile del suo lavoro. Diagonal composition 1,2,3 e Blind window 1,2,3 sono due serie di lightboxes nelle quali Jeff Wall rimanda formalmente al rigore compositivo dei quadri di Van Doesburg e alle geometrie della pittura astratta di Mondrian, raggiungendo risultati impareggiabili.

Poeta “dell’assenza, dell’attesa, del desiderio” (A. Robbe-Grillet), sensibilissimo “pittore dello schermo” (Wim Wenders), “uno dei più grandi artisti del XX secolo” (Martin Scorsese), Michelangelo Antonioni, al pari di Roberto Rossellini e di Luchino Visconti, è uno dei padri della modernità cinematografica.

A celebrare il maestro ferrarese (1912 – 2007) è la sua città natale che, con una grande mostra a cura di Dominique Païni – direttore della Cinémathèque Française –, organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara in collaborazione con Fondazione Cineteca di Bologna, ripercorre la parabola creativa di Antonioni. Testimone lucido del Novecento, che come pochi altri ha saputo sondare l'animo umano attraverso uno sguardo innovatore, radiografando le inquietudini del mondo contemporaneo senza mai abbandonare eleganza e seduzione, Antonioni esercita oggi più che mai un notevole ascendente in diversi ambiti culturali – dalle arti figurative, al teatro, alla musica – oltre che sul cinema.

La sua opera, infatti, che come ha scritto Martin Scorsese ha offerto al “cinema possibilità sorprendentemente illimitate”, ha superato i confini della settima arte ispirandosi profondamente alle arti figurative ed esercitando a sua volta su di esse una feconda influenza.Dal 10 marzo al 9 giugno 2013, Palazzo dei Diamanti ospiterà 47.000 pezzi dell’artista, tra film e documentari, sceneggiature originali, ma anche fotografie di scene – tra le quali spiccano quelle di Sergio Strizzi e Bruce Davidson –, l'epistolario intrattenuto con i maggiori protagonisti della vita culturale del secolo scorso – da Roland Barthes a Luchino Visconti, da Andrei Tarkovsky a Giorgio Morandi – e oggetti personali e professionali.Queste testimonianze, appartenenti al fondo del Museo Michelangelo Antonioni di Ferrara, permettono ai visitatori di indagare, con rara esaustività, la vita oltre che l'arte di uno dei più grandi artisti – cineasta, scrittore, pittore e collezionista – del Novecento, accostando i suoi lavori alle opere d’arte che lui ha ammirato, che ha scelto di far apparire nei suoi film o che egli stesso aveva collezionato, di maestri quali Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, Mark Rothko, Jackson Pollock, Alberto Burri e Mario Schifano. In un allestimento di grande fascino che mette in scena un racconto per immagini, suoni e parole, il percorso espositivo si articola in nove sezioni, alternando un discorso cronologico ad alcuni approfondimenti tematici che evidenziano le polarità della sua poetica: la leggendaria nebbia della pianura padana, che avvolge gli anni della giovinezza di Antonioni e ritorna in molti dei suoi film, è contrapposta alla luce abbagliante dei deserti aridi e polverosi delle pellicole della maturità; le visioni della metropoli moderna, spesso ispirate alle atmosfere sospese della pittura metafisica, si alternano alle lucide premonizioni di un disastro ecologico; la bellezza notturna dell’attrice Lucia Bosè – celebrata da una videoinstallazione realizzata appositamente per la mostra dall'artista, fotografo e regista francese Alain Fleischer – e la solarità di Monica Vitti, delineano i due poli dell'immaginario femminile di Antonioni.Zabriskie Point e Professione reporter sono le due pellicole che meglio traducono sullo schermo la forza della pittura novecentesca di cui era appassionato, dal solenne lirismo di Mark Rothko alle frenesie di Jackson Pollock, fino all’inquieto ottimismo della pop art di Mario Schifano, tutti artisti decisivi per l’affinamento della percezione visiva di Antonioni.Un esempio evidente è una scena di Zabriskie Point, girato nel 1970, al confronto con il quadro pop di Schifano Tutti morti dello stesso anno, dove molte sono le analogie.Morandi fu per Antonioni una vera attrazione: vicinissimi nel sentire, il modo di comporre gli oggetti nei quadri di Morandi e i colori con i quali li trasformava in nuove forme erano molto simili al procedimento creativo di Antonioni.Dagli anni Sessanta, prima del suo esordio con il colore in Deserto rosso – influenzato dalle tele di Burri della serie Rosso Plastica –, Michelangelo dipinse alcuni acquarelli di paesaggi montani, fatti di puro colore ed evanescenti come le nebbie in cui è cresciuto, esperimenti che preludono all’ampia serie delle Montagne incantate che il regista sviluppa nella seconda metà degli anni Settanta, elaborando ingrandimenti fotografici degli acquarelli.Antonioni rifuggiva dal termine pittore definendo la sua pratica come “gesto” artigianale, ma entrando nel merito del suo lavoro lo si può accostare agli artisti da cui trasse ispirazione, in particolare al puro colore delle superfici di Rothko.Ad arricchire l'allestimento, un'installazione, collocata nel giardino interno di Palazzo dei Diamanti, ispirata ad una delle più celebri scene della sua filmografia: la partita a tennis in Blow-up.

L'IDEA DI BELLEZZA CONTEMPORANEA

“I died for Beauty – but was scarce

Adjusted in the Tomb

When One who died for Truth, was lain

In an adjoining Room – [...]” 

I Died for Beauty

Emily Dickinson


“Abbiamo ancora bisogno della bellezza? Continua a rappresentare un valore, un obiettivo o uno strumento per gli artisti?”. Queste sono le domande alle quali artisti, letterati ed altri intellettuali internazionali sono stati invitati a rispondere in vista dell’ultima mostra allestita al Centro di Cultura Contemporanea Strozzina di Palazzo Strozzi a Firenze.

La mostra Un’idea di bellezza, inaugurata giovedì 28 marzo, infatti, attraverso le opere di otto artisti contemporanei di provenienza internazionale – Vanessa Beecroft, Chiara Camoni, Andreas Gefeller, Alicja Kwade, Jean Luc Mylayne, Isabel Rocamora, Anri Sala, Wilhelm Sasnal – e brevi testi di intellettuali, crea un percorso di riflessione sull’esperienza della Bellezza, affrontando non solo la difficile questione del rapporto tra bellezza e arte contemporanea – spesso viste in contrapposizione –, ma anche della sua necessità, del suo valore e della sua funzione nella contemporaneità. Più che di risposte, però, si può parlare di spunti forniti allo spettatore per educarlo a nuove, soggettive, concezioni estetiche.

Tema dominante di tutta la storia dell’arte, il concetto di Bellezza, che fin dall’antichità fu fatto corrispondere alla rappresentazione della Verità, del Bene ed al creare Piacere in chi guarda, con l’esposizione dell’Olympia di Manet al Salon parigino del 1865 vacillò fino ad essere sconfessato dalle componenti necessarie delle belle arti. Furono, in seguito, gli esiti delle avanguardie a demolire definitivamente la bellezza come criterio di valutazione del fare artistico.

Le numerose esposizioni e i testi critici pubblicati sull’argomento nell’ultimo secolo hanno però rimarcato l’esistenza di un legame, intrinseco alla nostra concezione estetica, tra bellezza ed arte. Per usare le parole del critico d’arte Italo Tomassoni, essa oggi viene sempre più spesso definita “Indefinibile, Ineffabile ed Irriducibile” perchè impossibile da circoscrivere ad un valore assoluto, nonostante rimanga un ingrediente imprescindibile del fare artistico.

Ciò che emerge, infatti, dall’esposizione fiorentina è un’accentuata soggettività dello sguardo degli artisti contemporanei, che trova la bellezza in luoghi, pensieri e atteggiamenti differenti.

Wilhelm Sasnal (1972, Tarnów, Polonia; vive e lavora a Cracovia), le cui opere aprono la mostra, focalizza la sua ricerca sul valore della pittura nell’arte contemporanea e lo fa attraverso una tecnica a metà strada tra astrattismo e realismo. I suoi paesaggi e le figure umane che vi ritrae vogliono far riflettere lo spettatore su un’idea di bellezza legata alla capacità dell’osservatore di elevare un momento qualsiasi della vita quotidiana. La bellezza, infatti, secondo l’artista si può rinvenire in qualsiasi cosa, anche in quella apparentemente più banale, attraverso il giusto sguardo.

Nell’installazione Teleportation (Teletrasporto), attraverso undici lampade da tavolo identiche intervallate da lastre di vetro dalla forma irregolare, Alicja Kwade (1979, Katowice, Polonia; vive e lavora a Berlino) crea un paesaggio scultoreo giocando con luci dirette, riflesse e specchiate, costringendo lo spettatore a riflettere sulla propria percezione visiva. Solo tre lampade, infatti, sono veramente accese. Allo spettatore, però, muovendosi nella sala e cambiando il proprio punto d’osservazione, sembreranno quasi tutte accese grazie alla rifrazione della luce da parte dei vetri inclinati. Il concetto che l’artista vuole esprimere con questa installazione site specific è come sia possibile scoprire la bellezza anche solo andando oltre le convenzioni che limitano la nostra visione del mondo.

Vanessa Beecroft (1969, Genova; vive e lavora a Los Angeles) fin dall’inizio della carriera ha incentrato la sua ricerca sul tema del corpo femminile in quanto tradizionale oggetto delle speculazioni sulla bellezza.

Nel video e negli scatti fotografici di VB66 – performance dell’artista  realizzata in un mercato ittico di Napoli nel 2010 – cinquanta modelle dipinte di nero assumono posizioni chiaramente riprese dalla statuaria antica e dalla pittura moderna, per accompagnare lo spettatore a riflettere sull’ossessione della perfezione nella rappresentazione del corpo femminile nella storia dell’arte e sul svilimento subito da esso nella contemporaneità mediatica.

Per contrasto, nel video Body of War – opera centrale di una trilogia –, Isabel Rocamora (1968, Barcellona; vive e lavora tra Londra e Barcellona), invece, cerca di cogliere l’aspetto armonioso laddove parrebbe logicamente mancare: l’artista infatti riprende il training di combattimento di due soldati, estetizzando i loro movimenti attraverso il ritmo della musica di sottofondo e sublimando i loro gesti brutali e meccanici in una coreografia.

Molto didattica ed interattiva, la mostra conta anche tre sale dedicate proprio alla partecipazione attiva del pubblico. In una sala, infatti, è possibile sedersi a leggere trattati di estetica e cataloghi di mostre che hanno approfondito il concetto di bellezza nell’arte contemporanea; in quella adiacente  lo spettatore è invitato a leggere, e se vuole ad appropriarsi, di un breve testo scritto sul tema della bellezza dai grandi della letteratura internazionale – da Emily Dickinson a Charles Baudelaire, da  Gianni Rodari a tanti altri – ; ed in un’altra ancora, vi sono allestite fotografie, immagini e testi inviati alla Strozzina in occasione del progetto speciale “La mia idea di Bellezza” che continuerà, fino al termine della mostra, a coinvolgere chiunque voglia condividere la propria idea di bellezza.

bottom of page